A proposito di "Un pallido sole che scotta"
Nella luce del Sud
Francesco De Core ha viaggiato tra Calabria e Campania per incontrare genti e memorie di scrittori. Ne è venuto fuori un bellissimo libro: un reportage nell'anima negata del Sud
Più passano gli anni e più mi succede di apprezzare i libri spuri, in cui convivono diversi generi letterari fra loro osmotici. Come questo di Francesco De Core Un pallido sole che scotta – Da Africo a Napoli, viaggio nel cuore del sud (edizioni spartaco, pp.169 10 euro), ch’è, sì, un viaggio in alcuni luoghi del sud occidentale d’Italia con piglio da reportagista, partendo da Africo (Reggio Calabria, nella foto accanto al titolo), attraverso il Cilento, passando per Salerno, Caserta, Napoli e molti centri minori – che sono anche i luoghi dove l’autore ha vissuto, ha operato; ma è molto altro. È anche un pamphlet severo e perfino impietoso, animato da una robusta tensione civile, contro abusi e malgoverno così radicati in quelle terre di ‘ndrangheta o camorra; è una ricognizione letteraria critico-biografica di prim’ordine su vari scrittori, poeti, artisti imparentati con quei luoghi anche soltanto per un breve frammento biografico (vedi il caso di Camus nella tappa cilentana del suo viaggio in Italia assieme a Nicola Chiaromonte, nel 1954). Nella maniera di interpretare la critica come “critica della vita”, e in parte anche per ragioni di gusto, apparenterei De Core a altri critici-scrittori di generazioni precedenti o successive: Manica, La Porta, Onofri, Perrella, ecc. e fra i “giovani” azzarderei i nomi di Ottaviani, Caterini, Calcaterra, Coscia e Giglio. Tutti orbitanti nei loro libri di critica attorno alla forma del personal-essay, di cui paiono ridisegnarne di volta in volta i confini.
Il collante stilistico di questo libro potremmo azzardare che sia una prima persona assai duttile (sia intima che pubblica) che non si nega al lirismo cromatico e al risalto metaforico (De Core è un accanito metaforista). Una prima persona che coincide con l’autore evidentemente, perlopiù risentita, amara, tanto casta nel riferire di sé, quanto dettagliata e martellante nell’evidenziare ovunque il marcio, e il brutto architettonico o paesaggistico, l’incuria, il malaffare, la mafiosità, l’incapacità cronica della sua gente di proteggere il “bello” e il “bene” – in simbiosi con le opere di scrittori e poeti e registi e artisti che quei luoghi hanno vissuto o attraversato, alcuni dei quali – Saviano, Gustave Herling, Siciliano ecc. – anche conosciuti personalmente.
Abbiamo accennato a Camus, di cui De Core restituisce anzitutto una idea della luce mediterranea che si concretizzerà nel suo ultimo, struggente romanzo Il primo uomo, e che andò precisandosi durante quel soggiorno nel sud Italia, come pure in quello, successivo, in Grecia: «La luce, per Camus, è sale dall’anima, non semplice appagamento estetico».
E Alfonso Gatto: profondo, chiaroscurale il ritratto del grande poeta-pittore-scrittore salernitano, insieme popolare e raffinatissimo, appassionato di sport, di donne e di molte altre cose, viscerale e lirico, viaggiatore ma anche saldamente ancorato alla sua città, Salerno, alla sua terra, a un’utopia di purezza e di grazia legata alla memoria, al «senso sfumato della perduta infanzia». E poi Giuseppe Berto che va a isolarsi nella «Calabria di mezzo», a Capo Vaticano, in reazione al suo Male Oscuro, alle smanie di successo letterario, sempre mortificate dal sostanziale rifiuto dell’establishment romano, Pasolini in testa (vedi Descrizioni di descrizioni).
Oppure prendiamo le pagine su Pasolini a Caserta e Casertavecchia, durante le riprese del Decameron e delle Mille e una notte, corredate da interviste (accorpate in stringate autonarrazioni) di diversa gente della troupe, oppure del cast fra le comparse, assoldati in loco, che racconta anche l’uomo Pasolini, con la sua gentilezza, il suo sacro rispetto per il lavoro – e la giusta retribuzione – di tutti, le sue pause solitarie a leggere, i ritmi massacranti delle riprese, le sue improvvise rivelazioni… In queste pagine ispirate dove autobiografia e storia e critica e mito convivono perfettamente nutrendosi a vicenda, scatta un cortocircuito fra il padre naturale dell’autore, e il padre spirituale, per così dire, Pierpaolo Pasolini – nella comparazione fra due foto che li ritraggono. L’uno, pittore, intento a dipingere fra le quinte medievali ombrose di Casertavecchia, l’altro durante una pausa nelle riprese de Le mille e una notte a un anno dalla morte: «Pasolini è ritratto di fianco, seduto su una scaletta di legno, con i capelli sconvolti dal vento, gli occhiali da sole, una mano – la destra – sospesa su un ginocchio. (…) Ecco, Pasolini è fondamentalmente un uomo solo. Un Cristo deposto, fuori scena, che vuole rimanere appartato».
Di ritratti memorabili in questo libro ce ne sono molti altri: da Nicola Pugliese a Compagnone, da Montesano a Sandro Onofri fino a Saviano, da Pavese a Sciascia ecc.. Ritratti di scrittori dunque, ma anche ritratti di persone qualunque, che diventano immediatamente “leggendari” per una innata tendenza mitopoietica dell’autore, e per le sue qualità da ritrattista: vedi la digressione sulla boxe a Marcianise, coi personaggi nobili, onesti, “sani” che ancora la abitano, come il maestro Brillantino. De Core è uno scrittore tendenzialmente lirico e barocco, che però in questo contesto anche divulgativo ha scelto di dominarsi, di farsi umile forse in onore al suo primo mestiere, quello del giornalista.