Periscopio (globale)
L’inferno di Lowry
Alla riscoperta di Malcolm Lowry, l'autore di "Sotto il vulcano" che meglio di altri è riuscito a descrivere quel senso di inadeguatezza alla vita che ha segnato l'uomo del Novecento
Sono davvero pochi gli autori capaci di influenzare, senza mai essere davvero influenti, diverse generazioni di lettori e scrittori. Autori in grado, magari con un solo libro, di suscitare emozioni e ammirazione non solo nel lettore, ma anche negli addetti ai lavori, nei romanzieri o aspiranti tali, e questo anche quando sono a un passo dall’essere dimenticati e la loro presenza è tutt’al più sotterranea e incidentale. Uno scrittore di questo genere è Malcolm Lowry, di cui ricorre in questi giorni il sessantesimo anniversario della morte; un autore che in vita è riuscito a pubblicare poco e con molte difficoltà – il suo capolavoro, Under the Volcano (Sotto il vulcano), conobbe una dozzina di rifiuti da altrettanti editori – e che anche in seguito è stato presto dimenticato, pur conoscendo un transitorio ritorno di fiamma, probabilmente per una specie di equivoco critico, alla fine degli anni Sessanta, al momento cioè dell’avvento dell’interesse per l’intertestualità, la metascrittura, l’autobiografia romanzata, oltre che naturalmente per le peculiarità della figura e dell’opera di Lowry stesso.
Nei dodici capitoli di Sotto il vulcano, che corrispondono alle ultime dodici ore di vita del protagonista, il console Geoffrey Firmin – per la precisione il 2 novembre del 1938, ma il primo capitolo è ambientato esattamente un anno dopo –, Lowry è autore di una narrazione sincopata, brillante, solenne, emozionante, in cui l’alcolismo, il rimorso, la debolezza, la depressione indotta o rafforzata dal mescal, l’incapacità d’amare e d’aiutare il prossimo, l’impossibilità della redenzione dopo il peccato, la pulsione verso l’inevitabile autodistruzione s’intrecciano fino a divenire metafora inevitabile di un’esistenza – quella del protagonista, ma anche di tutti noi – che appare sempre più casuale e insensata. Firmin non è all’altezza del mondo che lo circonda: in particolare, non riesce a gestire il ritorno della moglie, Yvonne, che l’aveva abbandonato (proprio come Jan Gabrial, la prima moglie dello scrittore, nella vita reale), né l’incontro con il fratello, Hugh, che nel frattempo ha partecipato alla guerra di Spagna e rappresenta una sua versione più giovane e probabilmente migliore; ma soprattutto non sa affrontare la realtà e i propri fantasmi, simboleggiati dall’onnipresente bottiglia, dal giardino assediato e infine invaso dalle erbacce e dalla minaccia incombente dell’eruzione di ben due vulcani, il Popacatepetl e l’Ixtaccihuatl, quelli sotto i quali si svolge la sua ordalia.
«Qualcuno gli scagliò dietro un cane morto, nel burrone». Facciamo spesso attenzione agli incipit dei romanzi, più di rado ai finali. Ma sono pochi quelli che restano impressi nella mente del lettore come l’ultima frase di questo romanzo, con quel cane morto che coprirà il corpo esanime del protagonista, dove la scena finale amplifica quella centrale, quando Firmin s’imbatte in un indio che si sta dissanguando sul ciglio della strada e nel suo annebbiamento non può o non riesce in alcun modo ad aiutarlo.
Terminato nel 1945 e pubblicato due anni dopo anche grazie a una lunga, polemica lettera di Lowry all’editore Cape per protestare conto il giudizio poco lusinghiero di un editor che aveva proposto drastici tagli, Sotto il vulcano doveva rappresentare il capitolo d’apertura di un progetto più vasto, intitolato The Journey that Never Ends (Il viaggio che non ha mai fine). Con questo titolo generale è stata poi invece pubblicata, postuma, una raccolta di lettere, frammenti e poesie. Nel quadro del progetto complessivo, Sotto il vulcano avrebbe dovuto costituire una specie di attualizzazione dell’Inferno dantesco – non a caso lo scrittore stesso lo definiva la sua Divina commedia ubriaca – e sarebbe stato equilibrato dalla novella Lunar Caustic e soprattutto dal torrenziale In Ballast to the White Sea (circa 2000 pagine), rispettivamente quali purgatorio e paradiso. L’ambientazione passa in effetti dal Messico (inferno) a New York (purgatorio) al Canada, il paradiso in terra, dove Lowry trova una transitoria oasi di pace con la seconda moglie Margerie Bonner. Con qualche contrattempo: non solo sarà costretto a diversi traslochi, ma alla fine un incendio distruggerà, insieme all’ultima dimora, una casa-capanna sul Pacifico peraltro abusiva, anche l’enorme manoscritto. (Una versione iniziale di In Ballast to the White Sea riemergerà solo nel 2001, quando Jan Gabrial rivelerà di essere in possesso di un manoscritto che Lowry aveva lasciato alla madre di lei nel 1936, prima del trasferimento in Messico).
Dalle fiamme si salva però Sotto il vulcano, romanzo al quale Lowry continuerà a lavorare negli anni successivi con un’acribia fuori dal comune e con un lavorio davvero interminabile di revisione, comparazione di frammenti e riscrittura: metodo, questo, che applicherà, con l’attiva complicità dell’ambiziosa Margerie, a tutta la sua opera. Che è poi tutta incentrata sul motivo della quest, della ricerca, tanto linguistica quanto esistenziale; al punto che, come è stato osservato, se la sua vita è contrassegnata da viaggi e spostamenti continui, per ironia della sorte la morte avverrà, il 26 giugno del 1957, proprio al ritorno in patria, in Inghilterra, da cui era partito come mozzo trent’anni prima. (Di questo periodo aveva lasciato testimonianza nel primo libro, Ultramarine, del 1933, e nelle poesie, altro genere in cui eccelleva).
Alcolista come molti scrittori della sua generazione, Lowry morirà letteralmente attaccato alla bottiglia, con qualche decina di compresse di sonnifero ingerite dopo un’abbondante bevuta e un litigio con Margerie, che beveva quasi altrettanto. Per tutta la vita oscilla fra l’abbandono a questo vizio e il tentativo di riscattarsene appunto attraverso la scrittura, pur non ignorando di essere e di dover rimanere, per stile e passione letteraria, ai margini dell’industria culturale. Quando in gioventù scrive il racconto The Last Address, che diventerà in seguito Lunar Caustic (Caustico lunare), è affascinato dalla figura di un altro grande scrittore fallito e morto in povertà, quel Melville al quale non cesserà d’ispirarsi e che costituirà, insieme con Kipling, Conrad e l’amico poeta Conrad Aiken, uno dei suoi punti di riferimento costanti e più sicuri. La genesi di The Last Address è del resto significativa: nel 1935 un amico, Eric Estorick, preoccupato per la sua salute mentale, gli consiglia di farsi ricoverare nel reparto di psichiatria dell’ospedale Bellevue di New York, in un momento in cui l’alcolismo cronico e la crisi matrimoniale con la prima moglie lo stavano riducendo a un relitto umano; Lowry segue il consiglio, ma minimizzerà poi sempre le sue condizioni, dichiarando che il ricovero era stato del tutto volontario, una specie di espediente letterario per potersi appropriare di materiale di prima mano su cui basare la storia che poi effettivamente avrebbe scritto.
D’altra parte, vita e letteratura s’intrecciano in lui senza soluzione di continuità: ad esempio, già il titolo di Dark as the Grave wherein my Friend is Laid (Buio come la tomba dove giace il mio amico), che si rifà a un verso di un’elegia del poeta secentesco Abraham Cowley, sembra ricordare un oscuro episodio della sua breve vita da studente, quando un amico, Paul Fitte, innamoratosi di lui, non aveva saputo sopportarne l’indifferenza, finendo per suicidarsi e lasciando nell’animo dello scrittore un rimorso che lo avrebbe accompagnato per tutta l’esistenza.
Nel 1957, al momento della morte, Lowry stava lavorando al romanzo October Ferry to Gabriola (Il traghetto per Gabriola), pubblicato postumo da Margerie nel 1968, un “romanzo gotico” sulla scorta di Henry James in cui a prevalere, più che i fantasmi e le manifestazioni esteriori del genere, sarebbero stati – come in James, appunto – i contorti processi dell’inconscio e l’equilibrio mentale dei singoli personaggi. Margerie aveva pubblicato nel 1961 anche i magistrali racconti di Hear Us, o Lord, from Heaven Thy Dwelling Place (Ascoltaci, Signore) nonché, qualche anno dopo, una selezione della sua corrispondenza. Da cui fra l’altro si evince come Lowry si sentisse spesso incapace di capire cosa volessero mai dire gli scrittori suoi contemporanei e troppo timido e impacciato per chiederlo apertamente, al punto che forse questa sua posizione di eterno e grandioso marginale non era tanto una scelta, quanto una necessità. Ciò non ne rende la riscoperta certo meno necessaria e appassionante. Ma è bene che i lettori di oggi se ne approprino con la stessa prudenza con cui i marinai usavano il famoso “caustico lunare”, un detergente per la pulizia delle rifiniture metalliche delle barche: rischiando cioè, se troppo esposti, di scorticarsi.