Ultima replica all’Opera di Roma
L’arte di Rossini e quella di Michieletto
Memorabile la messa in scena de “Il viaggio a Reims” firmata dal regista veneziano che nel cogliere l’inconsistenza della trama della non-opera rossiniana sa come focalizzare i connotati e i ritmi della partitura
All’Opera di Roma, finora, questo titolo non era mai stato rappresentato. E adesso la messa in scena creata da Damiano Michieletto è risultata strepitosa, conducendo lo spettacolo a un trionfo memorabile. Il viaggio a Reims è un dramma giocoso in un atto su libretto di Luigi Balocchi, che Gioachino Rossini, da poco trasferitosi a Parigi, compose nel 1825 per la cerimonia d’incoronazione di Carlo X nella Cattedrale di Reims. Questa cantata scenica, come all’epoca si definivano i lavori d’occasione concepiti per celebrare un evento particolare, fu eseguita soltanto quattro volte, tra giugno e settembre 1825, a cavallo della prevista solennità. Dopodiché, nonostante l’aperto successo, il musicista resisté alle pressanti richieste di ripresa, e ritirò la partitura, concepita appunto solo per la solenne evenienza. Com’era buon uso nell’artigianato dell’epoca, dove niente si buttava ma quando possibile si reimpiegava, Rossini attinse dal cassetto del Viaggio una buona metà della musica per la sua successiva, prima opera francese, Le Comte Ory, ovviamente in un diverso contesto testuale e teatrale. La partitura del Viaggio si riteneva perduta, quindi; e in effetti ha taciuto centosessant’anni, finché nel 1984 ne fu ritrovato l’autografo nella biblioteca del Conservatorio di Santa Cecilia. Subito dopo, nel 1985, Il viaggio a Reims fu allestito nel Rossini Opera Festival (Rof) di Pesaro, in una prima ripresa moderna di grande richiamo, seguita poi da altre edizioni.
L’allestimento odierno del Teatro dell’Opera (sabato 24 giugno ultima replica), con la regia di Michieletto, proviene dall’Opera Nazionale di Amsterdam, dov’è andato in scena due-tre anni fa. In realtà, Il viaggio a Reims è una non-opera, perché nel lunghissimo atto unico, qui diviso in due parti, non succede quasi niente quanto a drammaturgia. Uno stuolo irripetibile (difficile per un teatro metterli insieme ad alto livello) di ben diciassette cantanti, dà vita ad altrettanti personaggi, i più strampalati e diversi. Questi si radunano nel Giglio d’oro, albergo termale di Plombierès, per recarsi a Reims ad assistere all’incoronazione. Ovviamente la variegata combriccola a Reims non arriverà mai, perché raggiunta dalla ferale notizia che non si trovano più cavalli, date le circostanze. Ma intanto, pur in assenza di una trama, si sviluppa tutto un fiorire di intrecci amorosi e di relazioni tra i principali personaggi.
Alle prese con questa non-vicenda, nella quale nulla succede, è sbocciata la prodigiosa creatività del giovane regista veneziano. L’ambiente è diventato un museo d’arte contemporanea: il Giglio d’oro diventa il Golden Lilium, modernissimo, trendy e newyorkese. Un museo in piena fibrillazione perché alla vigilia di inaugurare una mostra, con un’agitatissima direttrice, Madama Cortese. Alle pareti, quadri celebri di artisti famosi, i cui soggetti a un certo punto escono dai quadri, e interagiscono con i cantanti, con tutti i personaggi in continuo movimento tra arte e vita reale. E via via si osserva che la regia di Michieletto (con scene di Paolo Fantin, costumi di Carla Teti, luci di Alessandro Carletti: bravissimi) sa cogliere l’inconsistenza della trama, e l’evanescenza del rapporto musica-libretto, per inventare momenti nei quali si focalizzano liberamente i connotati e i ritmi della partitura di Rossini. Ma il colpo di teatro arriva nella seconda parte, con il lungo finale disegnato come un tableau vivant. Nell’atmosfera trasognata di una musica sublime, sull’incantevole canto di Corinna che avvolge il tutto, appare in scena un’immensa cornice. Creando un effetto geniale, con movimenti rallentati da moviola, Michieletto inserisce via via i personaggi all’interno della cornice, e ricompone così il noto quadro di François Gérard, del 1827, che celebra proprio l’incoronazione di Carlo X. E sull’immenso velo al boccascena appare gradualmente la riproduzione gigante del quadro stesso, in una sovrapposizione perfetta tra figure del dipinto e personaggi reali, tra arte e vita. La meraviglia si compie e si conclude, segnando come pietra miliare una svolta definitiva rispetto alle storiche messe in scene di Luca Ronconi e di Emilio Sagi.
E ora lo stuolo nutritissimo di interpreti, nel quale si distinguono Mariangela Sicilia, Corinna, Anna Goryachova, Melibea, Maria Grazia Schiavo, Contessa di Folleville, Francesca Dotto, Madama Cortese, Juan Francisco Gatell, Cavalier Belfiore, Merto Sungu, Conte di Libenskof, Nicola Ulivieri, Don Profondo, Bruno De Simone, Barone di Trombonok, Adrian Sâmpetrean, Lord Sidney, Simone Del Savio, Don Alvaro. E meritano la citazione anche gli altri: Vincenzo Nizzardo, Enrico Iviglia, Caterina Di Tonno, Gaia Petrone, Erika Beretti, Christian Colla, Davide Giangregorio. Molto bene il coro, istruito da Roberto Gabbiani, e l’orchestra. Direttore d’orchestra è Stefano Montanari, impegnato anche al fortepiano nell’accompagnamento dei recitativi. La sua concertazione è attentissima a colori e sfumature, e nell’insieme funziona, anche se a volte il governo delle voci, e l’equilibrio dei volumi tra buca e palcoscenico, lascia perplessi. Però non sempre convince il taglio estetizzante, talvolta enfatico della direzione di Montanari, che qua e là appare un po’ sopra le righe, quasi autoreferenziale. Il che non è sempre in linea con il pensiero musicale di Rossini. E qualche mirato buu dal pubblico, alla fine, l’ha sottolineato, in un successo collettivo che si può dire trionfale.