Il romanzo di Daniela Mattalia
La vista dell’invisibile
“La perfezione non è di questo mondo” può essere letto come un racconto fantastico dove sacro e profano eseguono una danza armoniosa. Ma anche come un manuale d’uso per la nostra seconda natura: quella di fantasmi
Quanta vita e quanta letteratura? Dove finisce una e comincia l’altra? C’è davvero un confine? Viviamo tutti, simultaneamente, nelle due, perché esistono i fatti, la realtà effettiva, ma nulla di questa realtà potremmo capire se non la raccontassimo. Per Daniela Mattalia, la letteratura ha un senso solo se è fatta nel nome della vita, e la vita diventa consistente quando è raccontata. Wittgenstein diceva che la somma dei fatti del mondo è la somma delle proposizioni su questo mondo. Ma rimane sempre un secondo problema da risolvere: sulle cose davvero straordinarie, fuori dal nostro comune sentire è difficile o impossibile pronunciarsi senza fallire. La bellezza, l’amore e la verità bastano a loro stesse. Quando scriviamo proviamo a riempire il vuoto che si apre fra simili momenti. Eppure, ci sono anche i miracoli.
In La perfezione non è di questo mondo (Feltrinelli, 176 pagine, 15 euro), la scrittura della Mattalia è un fruscio di seta nel vento lieve di un tempo revoluto che avvolge la Torino odierna. Basta chiudere gli occhi per sognare meglio e sentire tutti gli odori della breve vita data agli umani, per accedere a un olfatto che solo la razza canina può vantare, così come unicamente loro, gli animali da compagnia, possono condividere con noi tutta la gioia e tutta la sofferenza senza parola alcuna.
I personaggi di La perfezione non è di questo mondo hanno la dignità, la compostezza, la raffinatezza di un’epoca che pensiamo non essere più qui, ma accanto a cui camminiamo ignari. Possiamo entrare solo se troviamo il giusto passaggio, il giusto momento e la giusta motivazione. Ci sono regole. Nulla è lasciato al caso, nemmeno la morte, che pur avendo un’unica regola si lascia in parte corrompere in questo libro – diventa insicura, indecisa, titubante.
«Ma dimenticare un’assenza, non percepire il vuoto che ti cammina accanto, non ascoltare il silenzio dove fino a poco tempo fa c’erano parole, una risata, un sospiro. Come si fa?». Il libro di Mattalia può essere un manuale d’uso per la nostra seconda natura, quella di fantasmi. Un’affermazione questa che potrebbe sconvolgere gli spiriti religiosi o scientifici – realtà cognitive situate ai poli della ragione umana, ma il libero viaggio di là e di qua dalla barriera tra vita e morte ci è regalato come un assaggio di eternità, i cui sapori non possiamo conoscere che attraverso la grande letteratura. È ingannevole la scelta di un numero ristretto di personaggi e la storia che ci viene servita è in apparenza banale, poiché anche le vicende drammatiche – malattie, separazioni, abbandoni, vecchiaia – dei protagonisti o di figure marginali sono raccontate attraverso il filtro onnipresente dell’ironia, della battuta tanto scaltra quanto ingenua. Tutto è dosato con cura, il mondo intorno è un universo strappato al caos, dove tutto è ordinato, anche la babilonia di un bilocale da scapolo è assestata. Ma anche i sentimenti. Non ci sono lacrime. Non ci sono nemmeno rimpianti. Tutto si fa per forte convinzione. Anche gli sbagli. Gli sbagli che riguardano alcune scelte. E tutto si assume.
In questo libro tutto sembra una questione di fede. La perfezione non è di questo mondo, lo dice il titolo e lo dice Adriano nel suo dialogo con il tassista amico dei vivi e dei fantasmi. Gli uomini vanno educati ad affrontare la sofferenza con coraggio, arditamente, a considerarla una scuola della maturità, altrimenti non conosceranno la pace e vivranno nella paura e con la paura della morte. Sofferenza, malattie, crisi di ogni genere stanno in agguato di continuo e possono schiacciarci, se ci trovassero senza difese, senza la capacità di reagire, scriveva Michel Evdokimov. Nella Lettera agli Ebrei la fede viene definita come «la vista dell’invisibile», ed esistono due certezze universali sulle realtà invisibili: la bellezza e l’amore (vedere la bellezza di una donna, anche brutta, perché la ami profondamente). Fede dunque. L’unico veicolo che attraversa tempo e spazio. Siamo un mondo di fantasmi. E per non restare sconfinati da una delle parti, abbiamo bisogno di un veicolo.
Struttura solida del materiale narrativo, centralità dei personaggi, in numero di quattro – come gli evangelisti – frase nitida come lo specchio di un lago nell’assenza del vento, poche inserzioni di francesismi, ma non per coloratura, giusto per farci capire come nella Torino si sono fuse lingue diverse come in una babele miniaturizzata, un altro indizio, forse, per dire che gli spazi sono comunicanti. L’intero romanzo può essere letto anche come un racconto fantastico, dove sacro e profano eseguono una danza armoniosa. Perché lo stile ha un posto prediletto nelle preferenze tecniche della scrittrice che ci dà un libro in cui la magia è di questo mondo.