Su “Se mi tornassi questa sera accanto”
La cura delle parole
Il nuovo romanzo di Carmen Pellegrino racconta la storia di una famiglia imperfetta nel cuore delle montagne campane. Una vicenda nella quale l'elegia delle parole salva i personaggi dalla follia
Se mi tornassi questa sera accanto di Carmen Pellegrino (Giunti, 2017, pp.231, euro 16) è un romanzo sull’amore di un padre o meglio sulla mancanza d’amore, sull’essere diversamente amati, dove la cura per la parola sfiora un lirismo intimista e consapevole. Il titolo è tratto da un verso di Alfonso Gatto e, costantemente, ricorrono citazioni filosofiche e letterarie di un certo spessore: Antonia Pozzi, Giorgio Caproni, Eugenio Montale, Leopardi, Borges, Rilke, Seneca, Kierkegaard, Freud, Cioran, Pessoa e molti altri.
È la storia della famiglia Pindari: Giosuè, vecchio socialista idealista, innamorato dell’idea quasi platonica di una Città dell’Ignoto Ideale, deluso dall’avanzare della modernità nell’era della tecnica; Nora, moglie di Giosuè, amante dei funerali, malinconica e fuori dalla realtà, attualmente si direbbe depressa, che parla per criptici e poetici aforismi; Lulù, loro figlia, cresciuta nella gabbia soffocante del dovere, stretta tra una totale anaffettività materna e un asfissiante rigore paterno.
Lulù cresce senza diritti, soprattutto senza il diritto alla felicità. Saranno poi le lettere del padre, lanciate nel fiume, a farci scoprire la sua umanità e fragilità persino, un uomo consegnato nelle mani dell’idealismo per sfuggire alla disgregazione del reale, finendo però per perdere di vista la realtà della propria figlia, la tragicità della condizione di sua moglie.
Nora, chiusasi al mondo in seguito a una menzogna in adolescenza, vive l’esistenza come un lungo finire, come se cercasse la vita nel fondo della morte. E alla figlia insegna a scrivere e leggere al contrario, per consacrarle i preziosi diari in cui redige reportage di funerali e preghiere per i morti che tornerebbero utili in fondo ai vivi. Giosuè, invece, dalla figlia pretende una totale abnegazione, costringendola a diventare diversa dai suoi coetanei, a immolarsi ella stessa all’ideale che fu del padre, a lasciar perdere le passioni letterarie per dedicarsi all’agraria e a dimenticare il primo amore e ogni amore, per attendere e sottostare a una scelta non sua. Lulù, dal canto suo, avverte la violenza di tali pretese ma, incapace di ribellarsi, vive la propria condizione come un destino ineluttabile, si convince di essere incapace a vivere, sottomettendosi anima e corpo al volere del padre. Ma il seme della poesia genera in lei germogli di desideri altri, costruisce un mondo di oggetti parlanti e volontà di riscatto. Forse sono proprio le parole a salvarla, le fantasmagorie di un orizzonte altro dove ciò che è stato viene ridisegnato con un linguaggio nuovo che dà forma alle cose. Consacrata al destino di diversa, saprà guardare al reale con occhi fuori dal comune e godere di piaceri minimi, là dove altri vedrebbero miseria lei scorge la poesia dell’istante, guidata da parole ascoltate in infanzia, parole che diventano concreti universi, come fiumeterra, fiumecielo, casa galleggiante. Il destino che l’attende non è fatto solo di miseria e desolazione. È nell’incontro tra diversità che si genera il sentire universale e, proprio così, si può accedere al tentativo di costruire una vita altra rispetto al mondo ristretto in cui si è cresciuti.
La vicenda è ambientata tra gli Appennini campani, cui l’autrice attribuisce un simbolismo perturbante ma anche un gran senso d’appartenenza: «chi nasce tra quei monti» scrive nelle note «non chiederebbe di poter rinascere altrove, sebbene non possa aspettarsi niente dalla terra e niente dal cielo. Così s’impara presto a risemantizzare la parola disperanza, che diverrà l’attitudine a inseguire la speranza nelle cose disperanti. È ciò che fa Giosuè Pindari, che dalle balze dell’Appennino ha tratto un inno alla vita.»
Carmen Pellegrino è una delle voci più autentiche e originali della nostra letteratura attuale, con grande eleganza tratteggia una forma d’umanità invisibile ai più eppure così universale da permettere a chiunque d’immedesimarsi nell’uno o nell’altro dei suoi personaggi. In oltre la capacità di rendere in narrativa la poesia, qui felicemente realizzata, è una dote cui molti anelano e pochissimi raggiungono.
«Lulù, cara, in questo mio autunno ripenso alle volte in cui ho camminato dentro la notte trascinandoti con me, come fossi un prolungamento, la mia parte migliore. Così ti vedevo e per questo non ti era consentito giocare. Tu non eri una bambina: eri me nella forma minuta – sono forse mai stato bambino io? -, ma avresti avuto le possibilità che io non avevo avuto. Quando eri piccola mi offendeva vederti imboccare una bambola. Non eri venuta al mondo per prepararti alle cose domestiche. Per me non eri neppure una donna! Eri intelligenza pura, con le strade distese davanti a te; le scarpe per camminare te le avrei date io. Ma non credere che avrei preferito un maschio a te, questo almeno è un errore che non ho commesso. Quando avevi sei anni feci sparire le tue bambole, i peluche, le formine con cui facevi i biscotti di fango. Ti dissi che li avevo mandati ai bambini del Terzo Mondo e tu, pur dispiaciuta, accettasti la mia decisione».