La voce del poeta: Alberto Toni
Il senso che scuote
Affinando una capacità espressiva orientata verso la complessità, l’autore romano cerca una sintesi tra l'io lirico e un noi che ci riguarda da vicino. Perché la storia personale si intreccia con i segni della civiltà, come nella sua raccolta “Il dolore”
Autore di varie raccolte poetiche tra cui Liturgia delle ore (1988) e Teatralità dell’atto (2004) nonché saggista e traduttore, il poeta romano Alberto Toni ha licenziato nel 2016, per i tipi di Samuele Editore, la silloge intitolata Il dolore (100 pagine, 12 euro) che prende spunto dalla poesia eponima in cui, con toni commossi e delicati, rievoca la figura della madre: «i saluti, quei saluti nel corridoio, / tutto annotato fino all’ultimo, pagina / dopo pagina, sentimento dopo sentimento». La poesia inaugurale, Lungo il Sangro, scritta in uno stile “alto”, si configura come paradigmatica di tutta la raccolta, con quella «trota / che s’inerpica nel grigio rosa tra i sassi / e poi scompare».
Il suo ultimo libro è dedicato al tema del distacco.
Il dolore affronta il tema del distacco in un senso ampio che comprende il viaggio e il tempo. Il titolo, volutamente ripreso da Ungaretti, sta a sottolineare, sì, una condizione di perdita (e l’occasione è data dalla scomparsa di mia madre nel 2013), ma anche di attraversamento della storia. Nel mio libro, come nel Dolore di Ungaretti del 1947, alla scomparsa di una figura cara si accompagna lo smarrimento contemporaneo, il vivere dentro un tempo difficile da comprendere. Emblema di tutto è la trota sannita che incontriamo nella prima poesia, simbolo del tempo e dei tempi, dentro un ideale filo rosso che unisce passato e presente. La storia personale si intreccia con i segni della civiltà (delle civiltà) e la storia privata non può essere fuori dalla storia collettiva. Si tratta di cercare una sintesi tra l’io lirico e un noi che ci riguarda molto da vicino, proprio in un momento in cui alla poesia si chiede di uscire dallo stallo del formalismo o delle belle maniere.
Lei vive e opera a Roma. Come pensa sia cambiata la città dal punto di vista culturale rispetto agli anni della sua formazione?
Roma sta vivendo un momento particolare della sua millenaria storia. Ma di momenti particolari ce ne sono stati molti. E forse il problema è più generale, non riguarda solo questa città. Oggi è tutto parcellizzato rispetto agli anni della mia formazione, intendo gli anni 80. Ho avuto maestri attenti e sensibili (Elio Pecora e Amelia Rosselli in primo luogo) ed è stata una fortuna. In quegli anni c’erano letture, incontri, dibattiti, laboratori (penso a Pagliarani), si parlava di poesia nelle radio libere o a cena con gli amici. C’era fermento. E questo mi è servito molto, perché non si può scrivere, avere un’idea della poesia senza confronto. Ricordo i consigli della Rosselli sulla lunghezza dei versi, sul ritmo, su ciò che volevo dire e perché. Il poemetto L’accordo difficile, che poi uscì sulla rivista Tabula con una sua prefazione nel 1981, fu oggetto di revisioni e ripensamenti, proprio alla luce delle nostre lunghe discussioni. Di quel mondo mi rimane tanto, anche se non è quantificabile. Direi che mi rimane una “postura”, nel senso di atteggiamento. E oggi ho le idee più chiare, una maggiore consapevolezza. Citando Penna potrei dire: «Non c’è più quella grazia fulminante / ma il soffio di qualcosa che verrà».
Qual è, secondo lei, la situazione poetica in Italia?
Direi vivace, fluida, e anche con molti equivoci di fondo. In mancanza di una vera critica spesso si autogiustificano tendenze o gruppi, o anche singole voci, che non sempre hanno la forza di incidere. Mi sembra che questo sia il momento di una poesia facile, una poesia che si rifugia nel piccolo e nel quotidiano. Un conto è la grande semplicità (pensiamo alla Szymborska), un conto invece è il facile per il semplice. Personalmente preferisco lo spessore, una capacità espressiva più orientata verso la complessità. Ma poi si tratta sempre di valutarne la resa, la forza. Ecco, in una poesia cerco quell’inarcatura del senso che mi apra orizzonti, che mi scuota. Spesso invece mi imbatto in semplici stesure di poetiche, intenti e propositi: “Vi dico ciò che penso”, insomma. Si può anche fare, ma tutto questo deve essere dentro un tessuto potente che è l’Opera, dove tutto è al suo posto.
Cosa pensa della diffusione della poesia nel web?
Il web è un ottimo strumento di diffusione, ma gira di tutto e occorre ovviamente saper leggere. Il problema è anche quello di dare strumenti interpretativi, specialmente ai giovani, perché non tutto quello che è scritto andando a capo è poesia. Ma il problema è vecchio come il mondo. Rimarrà quello che deve rimanere, come è sempre accaduto. Spesso però il dibattito negli spazi seri (e ce ne sono) è interessante. I social rappresentano ormai una realtà, vedo ad esempio che su Facebook ci sono molti poeti e scrittori affermati che dialogano, è il tentativo di ricreare una comunità. Non è negativo, c’è uno scambio, non sempre poi il risultato corrisponde alle intenzioni.
Quali sono gli autori classici che hanno contribuito alla sua formazione?
Potrei risponderle che noi siamo anche ciò che abbiamo letto. Gli ultimi due secoli sono stati la mia palestra iniziale ai tempi dell’Università. E il Novecento per primo. Tra i moderni, quindi: Saba, Pasolini, Penna, Sereni, il primo Pagliarani, Zanzotto, la Rosselli. Poi Foscolo e Leopardi, e andando indietro, Tasso, Petrarca, il Dante delle Rime, e ancora più indietro, Orazio e Omero (l’Omero della Bemporad). Ho messo tra i classici anche i moderni, perché non smettono mai di parlarmi dentro. È ovvio che sono soltanto indizi di massima, perché il campo delle influenze è molto più vasto (ci metto anche i romanzieri, Svevo in primo luogo). E non ho citato gli stranieri.
Può parlarci del suo lavoro di traduttore?
Ho tradotto molto tra gli anni 80 e gli anni 90, poi mi sono un po’ fermato, anche se è mia intenzione riprendere. Mi piacerebbe continuare con Leiris, un poeta molto lontano da me, ma proprio per questo affascinante. Sono attratto da poeti che non mi somigliano; mi danno la possibilità di confrontarmi con la loro lingua. Tradurre è attività di laboratorio, e per me di riscrittura. Non mi interessa una traduzione perfetta, ma quanto di quel poeta mi resta, quanto di lui entra a far parte del mio sistema linguistico e del mio mondo interiore. Leiris è così finito anche nel mio ultimo libro. Ma mi considero un poeta che occasionalmente traduce e compie qualche incursione.
Cosa sta preparando attualmente?
Scrivere dopo Il dolore non è facile, è stato ed è un libro impegnativo. Sto lavorando a una nuova raccolta che si propone come una prosecuzione del tema e anche come un superamento. Cercare un equilibrio tra il passato e il futuro, una specie di riflessione aperta sul passaggio da una situazione a un’altra. Ma l’aspetto di questo lavoro non mi è ancora del tutto chiaro. Sto anche lavorando a un romanzo-diario che ha come argomento il passaggio dalla giovinezza all’età adulta. Anche qui si sovrappongono piani temporali diversi: a una ragazza dei nostri giorni e all’io narrante fa da sponda la figura di Gian Pietro Lucini.
Può commentare la poesia inedita presentata?
L’inedito che presento è proprio un esempio di quanto detto prima su ciò che sto scrivendo: il presente dopo Il dolore. È una ripartenza che vuole essere anche fermata, la meraviglia dell’attimo presente, tra passato e futuro. Riprendo qui anche l’assunto interessantissimo di Severino nel suo ultimo libro, Storia, gioia, sull’apparire degli eterni come vera Storia. C’è una metafisica che vuole forma, vuole costituirsi, animarsi. La poesia si assume il compito di descrivere questa tensione dell’essente.
***
Per quanto il cuore ha navigato, le stagioni
che al tempo mio non stanno, vanno e nel certo
che non si configura passi, ritagli l’ora prossima
al presente. Tra ciò che fuori accade e l’altro,
il pensiero, il fisso firmamento di un saluto,
quel dire poi ritorno, non temere.
E poi non chiudersi, no, voglio abbracciarti,
apre la porta, saluta e si ferma dopo il suo giro
di danza adamantina. È per rompere il silenzio
nel suo getto di geyser tutto virtuale. È per dire
adesso non posso più aspettare. Tu casa, risorgi,
fai davvero l’esterno mio del tempo, l’esterno
mio che è eterno, perché non posso più pensare,
penare che lo sguardo mio del leccio
si perda dentro l’ombra della sera.
Alberto Toni