A Palazzo Venezia e Castel Sant'Angelo
Il mistero di Giorgione
Roma mette in mostra i ritratti di Giorgione per scovare nei volti e nei loro atteggiamenti le storie dei personaggi. Ma, dietro a occhi e mani, resta intatto il segreto della società rinascimentale
Capita di rado che la percezione preceda l’intento che gli organizzatori di una mostra si propongono di comunicare. È accaduto, accade, a chi vada a visitare la mostra Giorgione e i labirinti del cuore organizzata dal polo museale del Lazio, entrando per la prima volta a palazzo Venezia dal portone sulla piazza. Il restauro ha restituito luce alla scala con i soffitti a volte che conduce direttamente alla loggia delle Benedizioni, sopra San Marco, e agli appartamenti di Paolo II Barbo, papa veneziano. È vero che da quell’ingresso, già prima, accedevano gli studiosi diretti in biblioteca ma – dice la direttrice del Polo museale Edith Gabrielli – «si camminava con lo sguardo basso, facendo attenzione ai gradini». Dunque, uno dei molteplici motivi ispiratori della mostra, quello di restituire alla città i palazzi, sembra riuscito: Palazzo Venezia non lo avevamo mai percepito così, nella sua fisionomia più propriamente rinascimentale, esclusa la polverosa solennità che intristisce con la monumentalità mussoliniana, la scalea del Plebiscito.
Operazione ancor più complessa nella seconda sede della mostra in Castel Sant’Angelo. Il Castello vive una stagione fortunata, è il quinto museo italiano per visite turistiche, ma la novità è un impianto di climatizzazione che ha tolto l’ostacolo ad ospitare prestiti di opere dal resto del mondo. «L’obiettivo della mostra è semplice e chiaro – dice Edith Gabrielli –. Promuovere la conoscenza e la qualità della fruizione di Castel Sant’Angelo e di Palazzo Venezia, vuoi degli edifici vuoi delle collezioni permanenti. Il museo cioè non è un semplice “contenitore” che ospita l’esposizione temporanea ma ne costituisce il punto di partenza e il fine ultimo: non a caso ogni sforzo è stato fatto per un allestimento capace di entrare in sintonia con gli ambienti storici, in definitiva valorizzandoli».
Il centro e punto di partenza dell’esposizione è il doppio ritratto detto I due amici di Giorgione, che fa parte della collezione permanente di Palazzo Venezia dal 1919. L’attribuzione a Giorgione è discussa, come spesso accade per le opere del più enigmatico dei maestri del Rinascimento italiano, ma la mostra prende posizione, sulla base delle ricerche degli studiosi che hanno lavorato a mostra e catalogo, lo stesso curatore Enrico Maria Dal Pozzolo ed Elisabetta Zatti fra gli altri, con impianto scientifico e occhio alla spettacolarità che avvicini il visitatore comune. «Un quadro di due ritratti mezze figure, uno tiene la mano alla guancia, e nell’altra tiene un melangolo con cornice nera profilata et rabescata d’oro mano di Giorgione, il 28 gennaio del 1633 è attestato a Roma nella prestigiosa collezione del cardinale Ludovico Ludovisi».
Enrico Maria Dal Pozzo si spinge a dire, in conferenza stampa, che il “Doppio ritratto” è la Gioconda di palazzo Venezia per la forza innovativa nella rappresentazione dei sentimenti. La ritrattistica, spiega, quando non esisteva la fotografia, aveva scopi diversi e molteplici, spesso legati al matrimonio. E vi sono elementi simbolici il cui significato oggi ci sfugge: il guanto trattenuto in mano da un gentiluomo rappresenta l’impegno nella parola data. E il fazzoletto bianco nel ritratto di una gentildonna? Basti pensare che sottrarre il fazzoletto ad una donna era, all’epoca, reato punito con l’esilio (il fazzoletto rubato da Jago a Desdemona). Il seno nudo? Il cuore aperto che nulla ha da nascondere.
Ma lo strano doppio ritratto di Giorgione? Le due figure sono molto diverse fra loro. In primo piano, il giovane bellissimo con il viso reclinato sulla mano. Quella posizione è chiara, rappresenta spesso San Giovanni sotto la croce, esprime dolore. Non basta, però, a dirci di quale dolore si tratta. È l’altra mano, che tiene un melangolo, un’arancia amara, a dirci che si tratta di pene d’amore. Chi è l’altro giovane, in secondo piano, diversissimo per atteggiamento e per disegno? L’abbigliamento sembra essere quello di un giovane ecclesiastico, l’atteggiamento è di indifferenza. La diversità stilistica Dal Pozzolo la spiega con i molti ripensamenti che le indagini tecniche sull’opera hanno evidenziato. Sul piano stilistico, il secondo giovane fa pensare al ritratto di vecchia di Giorgione della galleria dell’Accademia a Venezia. Perché insieme?
In Una visita guidata, un delizioso libretto pubblicato qualche anno fa, Alan Bennet confessa «di non avere mai sperimentato un senso di estasi, o comunque una forte sensazione fisica, stando in piedi di fronte a un quadro, tranne forse un certo dolor di gambe o, per citare Nathaniel Hawthorne, “quel freddo demone della spossatezza che infesta i grandi musei” … nei musei mi sentivo sempre bocciato all’esame di sensibilità e ne uscivo con un senso di inadeguatezza». Più avanti, dopo aver sfogato la propria insofferenza per Berenson e la Villa i Tatti, Bennett fa l’elogio dell’iconografia: «Scoprire che i dipinti potevano essere decodificati, che erano anche esperienze intellettuali e non solo estetiche mi confortò parecchio, perché li inserì in un contesto più familiare e anche più inglese – se non altro perché gran parte dell’iconografia, raccontandoci chi è chi e cosa è cosa, può essere vista come una forma più elevata del nostro passatempo nazionale: il pettegolezzo».
Domandiamo, quindi, a Dal Pozzolo cosa abbia scoperto su quel giovane dostoevskiano, su quello Smerdiakov, con la faccia cattiva, alle spalle del giovane bellissimo che tiene il melangolo e che in mostra è accostato alla stupenda Melancolia di Dürer e alle edizioni antiche dei sonetti del Petrarca. C’è da supporre una rottura, un momento drammatico in una relazione omosessuale? L’interrogativo se lo è posto anche lui e ha consultato gli studiosi gender studies sul tema. La risposta è che è possibile ma non vi sono prove documentali al riguardo. C’è da aggiungere che l’amicizia maschile di età rinascimentale ha qualcosa in comune con quella dell’antica Grecia e che, per esempio, è documentata dalla studiosa Jenny Anderson la bisessualità di Niccolò Machiavelli.
I labirinti del cuore proseguono nel labirintico scenario di Castel Sant’Angelo, con opere assai belle, fra le quali c’è il ritratto postumo di Isabella imperatrice del Portogallo commissionato da Carlo V a Tiziano. E c’è la nobildonna con il libro della musica proveniente da palazzo Spada. La musica, in questo viaggio sentimentale, è importante quanto le canzoni di Francesco Petrarca. Quella scritta nel ritratto di Palazzo Spada è di Philippe Verdelot. Grazie alla cura di Cristina Farnetti, i visitatori, scaricando una app, potranno ascoltare, di fronte al quadro la prima esecuzione assoluta della canzone di Verdelot, il cui testo è stato ritrovato negli archivi del Conservatorio di Bologna. L’incisione è dell’ensamble Schola cantorum di Basilea.
Il comitato scientifico della mostra, di altissimo livello, unisce il lavoro degli storici dell’arte con quello degli storici, che hanno lavorato sulle vicende complesse di Palazzo Venezia e delle relazioni fra la Serenissima e Roma: Lina Bolzoni, Miguel Falomir (direttore del Prado, Silvia Gazzola, Augusto Gentili, Ottavia Niccoli. Il Catalogo Arte’m , di grande formato, costa 19 euro.