A proposito di “Nuovi realismi: il caso italiano”
Cicchitto epistemologo
Una stravagante raccolta di saggi accademici esplora la rivoluzione narrativa dell'Italia berlusconiana. Nel nome del "nuovo realismo" e di Antonio Moresco, epigono di «Dante e Mallarmé»
Un dubbio del lettore della strada, non specialistico, che si trovi a sfogliare il volume di quattrocento pagine Nuovi realismi: il caso italiano. Definizioni, questioni, prospettive, curato da Silvia Contarini, Maria Pia De Paulis-Dalembert e Ada Tosatti, pubblicato dall’editore massese Transeuropa: “Ma, mentre succedeva tutto questo, io dov’ero?”. Evidentemente e come da definizione, per strada, da dove è difficile accorgersi di tutta una serie di fenomeni, che accadono e vengono discussi e commentati altrove. Per esempio, quel lettore non sapeva che si fosse ormai definito e stabilizzato un canone di riferimento degli ultimi decenni della nostra narrativa, cioè relativo agli anni Novanta e agli anni Zero: egli aveva leggiucchiato, certo con poca attenzione, qualche saggio che tentasse un bilancio di quanto era recentemente avvenuto, ma non immaginava che, nel frattempo, si fosse giunti a conclusioni così nette, e che Antonio Moresco, per esempio, fosse lo scrittore italiano che regna incontrastato su questo nostro tempo tremolante. Bè, la notizia dovrebbe mettere di buon umore, perché radunare i tanti nell’uno, avere un nome che spicchi al di sopra di un paesaggio tanto frastagliato può essere una facilitazione, per ragioni di economia degli sforzi, quelli dei lettori che vogliano aggiornarsi, e di critica della cultura: se tutto questo consenso si è accumulato attorno, addosso a Moresco, ciò vorrà dire qualcosa sulla sua opera, oltre che su di noi, sulle domande che rivolgiamo alla letteratura e sulle risposte che otteniamo o, magari, che preferiamo ottenere.
I saggi contenuti nel volume, che riproducono gli interventi del convegno internazionale “I nuovi realismi nella cultura italiana all’alba del nuovo millennio”, affrontano la questione di quel “ritorno al reale” che, secondo le curatrici, si sarebbe verificato nella produzione artistica e nella riflessione critica degli ultimi due decenni, su per giù, ed ecco, allora, la benedizione introduttiva del creatore stesso del “New Realism”, Maurizio Ferraris, filosofo teoretico, nonché abilissimo organizzatore culturale. Assieme a Moresco, sono Giorgio Vasta e Walter Siti (nella foto sopra) gli scrittori più analizzati e citati, ma altri saggi sono dedicati a Emanuele Trevi, Gabriele Frasca, Giulio Mozzi, Giuseppe Genna, Laura Pugno, Marco Mancassola, Paolo Sortino e Valerio Magrelli – stranamente assente, invece, ogni riferimento a Giorgio Falco –, ai quali seguono approfondimenti sui nuovi realismi cinematografici italiani degli anni Zero, rappresentati dalle opere di Daniele Gaglianone, Daniele Vicari, Marco Bellocchio e Mario Martone; il panorama poetico contemporaneo, invece, viene scandagliato da altri contributi, compreso quello di Andrea Inglese, l’unico non accademico dei presenti, che sono in maggioranza giovani italiani trasferitisi in università francesi, in particolare parigine, anche se non mancano eccezioni. A scorrere i nomi dei narratori esaminati, sembra di poter affermare che lo sguardo di questi ricercatori si diriga verso una letteratura non pacificata e legata a qualche forma di impegno di stampo naturaliter progressista: non pare un caso la mancata attenzione nei confronti di Sandro Veronesi, Leonardo Colombati, Alessandro Piperno, Edoardo Albinati, Paolo Nori, Antonio Pascale, o del padre di tutta una linea di letteratura borghese, Raffaele La Capria, i cui libri degli ultimi decenni sembrerebbero però avere molto a che fare con il realismo, vecchio o nuovo che sia, basti pensare a L’estro quotidiano.
Va detto che occuparsi di “letteratura e civiltà italiana contemporanea”, come da dizione delle materie insegnate dalle tre curatrici, dev’essere gravoso, ed è forse un compito impossibile: come mettere in relazione l’una e l’altra, la letteratura e la civiltà? Si rischia parecchio, cioè si rischia di avvicinare arbitrariamente e troppo i termini della diade, oppure di porre una distanza insormontabile, di perdere il senso dell’accostamento: lo scopo delle presenti ricerche e la stessa formulazione del nuovo realismo, comunque, vanno proprio in direzione di una visione civile della letteratura, che ha oltrepassato le secche del post-moderno e ha ripreso a fare i conti con la realtà, a tentarne una narrazione “forte”.
Nell’ultimo quindicennio, sono venuti a mancare molti rappresentanti letterari delle prime generazioni del secolo scorso, coloro di cui è possibile collocare le data di nascita tra gli anni Dieci del Novecento e l’inizio del secondo conflitto mondiale, più o meno: in ordine di scomparsa e dimenticandone chissà quanti, potremmo nominare Francesco Biamonti, Franco Lucentini, Emilio Tadini, Giuseppe Pontiggia, Oreste del Buono (nella foto), Giovanni Raboni, Gina Lagorio, Giuseppe Patroni Griffi, Enzo Siciliano, Luigi Meneghello, Luigi Malerba, Fabrizia Ramondino, Giuseppe Bonaviri, Carlo Sgorlon, Edoardo Sanguineti, Franco Ferrucci, Francesca Sanvitale, Giovanni Giudici, Andrea Zanzotto, Carlo Fruttero, Vincenzo Consolo, Alberto Bevilacqua, Pier Luigi Bacchini, Luca Canali, Giampaolo Rugarli, Sebastiano Vassalli, Manlio Cancogni, Umberto Eco, Valentino Zeichen, Ermanno Rea, Jolanda Insana e Giulio Angioni, da ultimo. Per ciascuno di loro, la morte è venuta a sigillare una legittimazione già avvenuta o in fase avanzata di definizione; riguardo alle generazioni successive e viventi, invece, la discussione critica è in pieno svolgimento: o dovrebbe esserlo, quantomeno, mentre sembra che i giochi siano fatti, a dare ascolto agli italiani di Francia di questo volume che, a volte, sembrano più italiani di tutti noi, più addentro a certi fenomeni mimetici tipicamente nostrani, e che costituiscono una falange molto compatta, per gusti e posizioni politiche. Nel redigere le loro analisi, oltre che di pubblicazioni cartacee, questi ricercatori si sono largamente avvalsi di blog letterari o comunque culturali, di materiali tratti dalla rete, laddove è più facile il verificarsi e il diffondersi del vizio del “culturalismo”, dell’utilizzo a fini di elevazione sociale del riferimento colto o, più spesso, semi-colto, del nome che consenta la distinzione o, viceversa, l’intruppamento: e bisogna anche smettere di considerare l’Accademia come un riparo per quanti vogliano sfuggire al transeunte, perché così non è e nessuno riesce a sfuggire alle mode, ai contagi. A frequentare più del necessario il pianeta della social-letteratura, qualcuno finirebbe quasi per concludere che, di fronte a certa critica militante estremamente soggetta all’imitazione reciproca, meglio lasciar fare al mercato, i cui gusti non coincidono se non tangenzialmente con quelli di questa sfera di utenti molto agguerriti e molto smaliziati.
Andiamo al sodo: accomuna gli autori di questi contributi la convinzione che il post-moderno sia stato oltrepassato, in direzione di un realismo non mimetico di qualità nuova, e non frutto di un recupero. Certo, hanno concorso al suo varo i realismi passati, e fare tesoro di quelle esperienze ha determinato la sua attuale configurazione. Pur nell’arbitrarietà di ogni classificazione, delle tante che diamo per buone e che un relativo approfondimento, invece, farebbe affondare, questa del nuovo realismo sembra, però, davvero poco realistica: più emanazione d’imperio di Ferraris, suo artefice e propagandista, che consapevolezza condivisa dai selezionati o, comunque, possibilità argomentata di radunarli al di sotto di questo cappello. Per esempio, davvero gli Ottanta si sono così separati dalla realtà? (Rimanderei ogni discussione sul post-moderno, sulla liceità di una tale periodizzazione, che d’altronde tutti, o quasi, sembrano accettare.) E davvero è servito Berlusconi per farci rinsavire?
Ferraris è un conversatore piacevole e socialmente imbattibile, ma il suo percorso epistemologico sembra più dettato dalle circostanze e dalle esigenze del momento che da una coerenza interna: la conseguenza curiosa è che finisce così per non godere nemmeno delle virtù dell’orologio guasto, che azzecca l’ora giusta almeno due volte al giorno, perché Ferraris si è spostato, nel frattempo, ed è transitato, come altri teorici che hanno pensato bene di imitarne movimenti e movenze, da forme di anti-realismo e di relativismo radicale, quand’esse erano più consone allo spirito che stava soffiando, a posizioni che, nonostante ogni sforzo auto-pubblicitario, finiscono per essere proprie del solito, antico, realismo metafisico. Forse, un di più di alfabetizzazione scientifica (del pubblico e di chi quel pubblico applaude) aiuterebbe a misurare e coordinare la propria proposta epistemologica con le acquisizioni più recenti delle scienze dure, nel novero delle quali non rientra, purtroppo per noi, la politologia: già, perché il nuovo realismo sembra andare un po’ a rimorchio degli sviluppi politici – italiani, guarda caso. Anzi, gli eventi verificatisi negli ultimi vent’anni nel nostro Paese sono stati la ragione stessa della sua nascita: che onore sapere che, proprio in Italia, abbiamo azzeccato lo spiraglio giusto per avvicinarci alla realtà, anzi alla Realtà maiuscola… e di questo tanto atteso miracolo epistemico dobbiamo ringraziare nientemeno che Berlusconi!
“Uno degli assunti più interessanti del nuovo realismo è che vuole essere – in maniera programmatica – una proposta politica e non solo filosofica, o meglio, insieme filosofica e politica, un baluardo contro la dilagante de-realizzazione del mondo, di cui il berlusconismo costituisce in qualche modo un’epitome”: così, Donata Meneghelli, ma è davvero sensato attribuire al berlusconismo un tale ruolo? Il rischio è che lo si sottovaluti e, nel contempo, lo si sopravvaluti: Bondi e Cicchitto (nella foto accanto al titolo) influivano sulle nostre percezioni epistemiche? Può darsi, ma non producevano letteratura, per esempio – oddìo, è anche vero che Bondi esprimeva un’ambizione poetica… –, perché la produzione e la critica letterarie continuavano a restare stabilmente in mano di una classe culturale che era, in larghissima parte, ostile a quel potere politico. Sottovalutare il berlusconismo significa, invece, non tenere conto dell’imponente schermaglia che ha diviso l’Italia in questi decenni, trascurare le reazioni altrettanto potenti che esso ha causato, i miti contrari che si sono andati edificando: quello progressista e pansindacalistico dei Tre Milioni del Circo Massimo, quello disobbediente dell’Assalto alla Zona Rossa e tanti altri, tutte quelle narrazioni che hanno avuto effetti epistemici altrettanto notevoli sulle nostre immaginazioni, nonché effetti reali sul reale – oltre al ritorno “al” reale, infatti, bisogna tenere in conto il ritorno “sul” reale. Servirà, allora, un volumone uguale e contrario a questo, per avere una visione un po’ più chiara dello spettacolo cui siamo stati costretti ad assistere?
“1994: anno zero per le lettere italiane?”, si chiede Sarah Amrani. Ma qual è la differenza, insomma, che separa l’Accademia dalla Politica? Ogni muro sembra cadere, e la sensazione sgradevole, quella di trovarsi all’interno di una corrente partitica, magari del Partito Democratico, si prolunga nel timore che anche la critica letteraria possa essere nient’altro che la continuazione della campagna elettorale permanente nella quale è consistito questo tratto della storia d’Italia: con altri mezzi, certamente più raffinati e suadenti, ma anch’essa degna delle pagine culturali de “la Repubblica”, luogo d’incubazione del nuovo realismo ferrarisiano. Da quelle pagine restano escluse, ed è come se non esistessero, proposte epistemologiche dotate di minor clamore mediatico e di maggior rigore analitico, come quella del realismo empirico di Paolo Parrini, al quale si dovrebbe rivolgere chiunque voglia conoscere lo stato dell’arte del dibattito, nonché apprezzare un tentativo organico e serio di sottrarsi alle secche della contrapposizione tra le opzioni più radicalmente scettiche e quelle più tradizionalmente metafisiche.
Ma resta la letteratura, sulla quale si è detto poco, a fronte della preponderanza che essa riveste, nell’impianto del volume: e resta da aggiungere che il lettore-tipo che questi nuovi realisti richiedono non sembra molto laico, ma piuttosto in cerca di altri miti, altre identificazioni, altri brividi, che di certo “fanno” la realtà, o una realtà, ma non “sono” la realtà, tutta la realtà. “Mi chiamo Walter Siti, come tutti”, il celebrato e celeberrimo incipit di Troppi paradisi, non è forse un bengala scagliato nello spazio letterario a suscitare i boati, a spalancare le bocche? Presuppongono e pretendono un pubblico mai sazio di stupori a comando, alcuni degli analizzati, ma il caso più significativo è proprio quello di Moresco, e del saggio che Laurent Lombard dedica alla sua opera. Le sue “Brevi considerazioni su Antonio Moresco” (nella foto sopra) contengono una tale mole di logorroiche citazioni in nota dello scrittore che sembrano un arricchimento ulteriore della sua già avvenuta e copiosa mitizzazione. “Pur esitando nel considerare l’autore come uno scrittore maledetto (…)”: esita, Lombard, o fa finta di esitare, mentre procede verso l’agiografia e la mitografia. “Scrittore maledetto” è una dizione già accademica o siamo ancora al fan club? Tanto per fare chiarezza. Insomma, l’autore di Lettere a nessuno, il Grande Escluso da una “cultura editoriale italiana capitalizzata e globalizzata”, è colui che ha attraversato questa landa desolata nello “sprezzante silenzio”, tanto che “pochi scrittori gli palesarono la loro stima”. E pensare che altri hanno avuto tutt’altra esperienza della realtà moreschiana: e se Moresco fosse un grande scrittore, sì, ma uno scrittore umoristico? Uno scrittore auto-umoristico involontario, che può stufare, alla lunga, perché ridere per migliaia di pagine non fa bene alla salute. Che ne facciamo di Giuseppe Pontiggia, il quale insisteva nel ritenerlo non pubblicabile? Giudizi superati dalla Storia, quando la Storia coincida con l’apparato promozionale e l’efficienza professionale di Antonio Franchini?
D’altronde, “per Moresco, come lo è stato anche per Dante o Mallarmé, la vita, attraverso le sue ferite e i suoi fallimenti, conduce a libri dove risuscita tutto un mondo”: zitti tutti, anche la critica è giunta al proprio limite, ed è il caso di non andare oltre, di prendere per buoni i giudizi ultimativi di chi ha osato accostarsi a questo scrittore “risolutamente non conformista rispetto alle esigenze del mercato dell’editoria di massa” – speriamo soltanto che Lombard non si sia messo in pericolo, dopo essersi esposto così. Anche scherzare troppo al riguardo, come stiamo rischiando di fare noi, non va bene, perché è esperienza comune quella di verificare un improvviso mutamento di tono, nel fare il nome di Moresco, di assistere a una riattivazione di ogni pathos precedentemente rimosso: cala il silenzio e viene meno la ferocia abituale dei social, la sagacia spietata dei suoi utenti più scafati, in presenza del Totem, il Totem dalle molte facce, una per ogni divinità, cosicché ci sarà l’adepto che smarrirà la favella di fronte al Dio della Ribellione, chi riconoscerà il profilo addirittura della Rivoluzione, quantomeno (e più romanticamente) di quella tentata e fallita nel tempo mitico degli anni Settanta, e chi si prostrerà davanti al nobile sguardo di colui che, solo, incarna e difende la Grande Letteratura. Che gli attendenti moreschiani come Lombard, loro sì, siano un po’ poco realistici? Sarà realistico continuare a dare corda a rappresentazioni in cui l’Eroe continuava a combattere contro l’Italia tutta, che andava nel frattempo smerdandosi o immerdandosi, tanto per declinare un lemma così caro a Moresco?
“È fatto insindacabile, infatti, che egli resterà sempre estraneo – clandestino – a tutte le tendenze letterarie, per costruire, solitario, spesso incompreso e sovente calunniato, un’opera eccezionale dall’architettura ampia e unica”: a Lombard il merito di aver inaugurato un nuovo metodo critico, quello anteriore o profetico, che può addirittura e senza timore esprimersi sull’avvenire, stante l’eccezionalità moreschiana che garantirà allo scrittore una carriera differente e superiore. Comunque, adesso basta: meglio fare ritorno al vecchio Moravia, uno che le nuove generazioni di critici e di scrittori sembrano avere in sommo disprezzo e che, invece, ripassare non farebbe male, anche o soprattutto quando ci si dica interessati alla realtà, alla metodologia della sua rappresentazione.