La voce del poeta: Stefano Strazzabosco
Scacco matto
L’elemento ludico come critica radicale al conformismo e ai tanti mascheramenti che contrassegnano il costume dei nostri tempi. Così nella poetica dell’autore vicentino, tra rimandi intertestuali e metaletterari, serpeggia l’ironia. Ma la leggerezza è solo apparente… attenzione ai crepacci
L’ultima raccolta poetica del vicentino Stefano Strazzabosco è uscita per Il Ponte del Sale nel 2013 e si intitola 66 (100 pagine, 14 euro), come il numero di testi accolti nel libro. Si tratta di una singolare ricognizione su alcune tematiche basilari del nostro tempo come l’inautenticità, la globalizzazione, i cambiamenti linguistici, affrontati con levità e una sapiente dose di ironia. Oltre che poeta, Strazzabosco è saggista e fine traduttore dallo spagnolo, soprattutto di autori provenienti dall’America Latina, tra i quali ricordiamo il poeta argentino Juan Gelman. Come si evince dal tono dell’intervista e dall’inedito proposto, l’elemento ludico è quanto mai presente nella poetica di Strazzabosco, anche se non risulta mai autoreferenziale, nascondendo bensì nelle proprie pieghe una sorta di critica radicale al conformismo e ai tanti mascheramenti che contrassegnano il costume dei nostri tempi. Sono presenti, nel dettato dell’autore vicentino, continui rimandi intertestuali e metaletterari che vengono stemperati da una freschezza di tono quasi colloquiale, che suscita sorpresa e ammirazione.
Nella sua ultima raccolta l’elemento ludico e ironico – anche se si tratta di un’ironia spesso stemperata nell’amarezza – è quanto mai presente.
Ma sì, il gioco e l’ironia… Il gioco è senz’altro importante, credo per tutti, anche se spesso mascherato d’altro. Caillois ci ha insegnato che i giochi sono di varie specie, tutte serissime. Nel gioco c’è una leggerezza apparente: sotto si spalancano i crepacci, finirci dentro è un attimo. Ma il gioco è anche un modo di non prendersi troppo sul serio, ovvero di non credere che quanto si scrive sia determinante per i destini generali, e relativizzarsi. Perché al gioco si può vincere, ma il più delle volte si perde.
Quanto all’ironia, per quanto me ne dolga e penta, serpeggia e non riesco a imbrigliarla. È una distanza che si misura anche in amarezza, certo: anche per questo non mi piace granché, ma suppongo che a volte si renda necessaria, magari non inutile, magari addirittura salvifica. Il primo a rilevarla in ciò che scrivo è stato Zanzotto, ormai parecchi anni fa. Ora invece ne farei volentieri a meno… vorrei, come l’ultimo Guerra, qualcosa di più sporco, di più storto o sghembo… ma sono figlio anch’io del mio tempo e del me stesso andato, non ho la forza né i capelli del barone di Münchhausen. Userei le orecchie, però adesso la palude è ovunque.
Lei vive per gran parte dell’anno in Messico. In cosa si differenzia la concezione che hanno della poesia in quel paese rispetto al nostro?
In Messico la poesia è un genere trasversale, non solo colto ma spesso anche popolare. Da qui la sua diffusione e la partecipazione della gente ai festival o alle letture che si organizzano: la qualità può non essere sempre eccellente, ma quando tra il pubblico si scorgono bambini, impiegati, operai, studenti, madri, anziani si capisce che non si scrive sempre e solo per sé stessi, anzi. L’uso della lingua spagnola, poi, allarga enormemente la possibilità d’essere letti: non solo in Messico, dunque, ma potenzialmente in tutto il mondo ispanofono, nonché presso ampi strati della popolazione statunitense. Anche questo può cambiare la percezione delle cose, influendo sullo stesso processo di scrittura. Si tratta di un’arma a doppio taglio, ovviamente: se si scrivono bestialità in una lingua parlata da pochi milioni di persone, l’orizzonte del ridicolo è limitato a quei milioni. Se invece le si scrive in inglese, cinese, spagnolo, be’, auguri.
Può parlarci della sua attività di traduttore?
Traduco sempre, o quasi sempre, per piacere; per passione, meglio, perché il piacere svanisce non appena si comprende che il proprio lavoro è sempre un fallimento. Comunque sia, la libertà di tradurre solamente ciò che appassiona è impagabile: si è fuori dal mercato (benissimo), non si guadagna nulla (non è giusto), ma non si ha neanche nessun padrone, con l’unica eccezione della propria coscienza. Una postilla: tradurre poesia significa infilarsi nella pelle degli autori che si volgono a un’altra lingua. Non è poco, perché si impara molto e qualche volta si creano dialoghi, muti o reali, che stanno all’altro capo del telefono senza fili che usiamo per scrivere: ascoltarli arricchisce anche il nostro parlare.
Lei ha curato per diversi anni la rassegna poetica vicentina “Dire Poesia”. Qual era la formula adottata?
La formula di “Dire poesia” era quella di dar voce ai poeti attraverso, soprattutto, la lettura diretta dei testi. Alla lettura si accompagnava una piccola edizione di un inedito stampata a mano su carte pregiate coi torchi a caratteri mobili di Giovanni Turria. L’edizione veniva regalata ai presenti (e all’autore, ovviamente). La grande affluenza di pubblico, la sua affezione al progetto e la durata nel tempo erano garantite, credo, dalla qualità delle voci prescelte, italiane e straniere. Il finanziamento veniva dalle Gallerie d’Italia – Palazzo Leoni Montanari e dal Comune di Vicenza. Abbiamo organizzato cinque edizioni, dal 2008 al 2013; poi abbiamo deciso di chiudere, sia per ragioni personali, sia perché l’assessore che ci aveva sempre sostenuti, la prof.ssa Lazzari, aveva finito il suo mandato. D’altra parte, il nuovo assessore non ci ha mai richiamati.
Qual è la figura di letterato vicentino del Novecento che l’ha più influenzata?
Letterato? Se questa parola significa “poeta”, “artista” o “scrittore” direi che sono quattro: Guido Piovene, cui ho dedicato la mia tesi di laurea; Goffredo Parise, che ho letto più volte, affascinato e furente; Fernando Bandini, che ho frequentato per anni, passeggiando su e giù per Piazza dei Signori, a braccetto, ascoltandolo, ridendo, guardando i suoi occhi di corniola; Neri Pozza, che mi pare una delle figure più esemplari per quanto concerne il nodo tra creazione artistica, impresa editoriale e dignità morale: almeno fino a prova contraria.
Quali sono i suoi autori di riferimento?
Molti. Ma risalendo negli anni, salmodiandoli, direi Campana, Cardarelli, Montale. Sono i poeti che ho letto fin da piccolo, insieme al Salgari del Corsaro Nero e a pochi altri libri non sempre ineccepibili, anzi. Poi sono venuti Rilke, Zanzotto, Celan, Paz, Gelman e tanti altri.
Cosa sta preparando attualmente?
Del vermouth… ah, di poesia? un libro che sarà stampato in Romania e in Moldavia, dove andrò l’anno prossimo; e un’altra raccolta che uscirà in Italia, penso fra un paio d’anni. Per la traduzione, sono appena uscite le mie versioni del peruviano César Moro (La tartaruga equestre, Il Ponte del Sale, Rovigo 2016) e del messicano Eduardo Lizalde (Memoria del tigre. Poesie 1966-2016, Raffaelli Editore, Rimini 2016); mentre sta per uscire Arca, l’antologia poetica del poeta messicano Guillermo Fernàndez che ho tradotto e curato per La Vencedora. Guillermo era un amico poeta e traduttore che è stato ucciso in Messico quasi quattro anni fa, senza che a oggi si siano trovati il o i colpevoli. Il libro contiene anche quattro scritti che ne testimoniano la vita e l’opera, firmati da Marco Antonio Campos, Valerio Magrelli, Marco Perilli e Juan Villoro. Ci tengo molto, perché è il mio modo di rendergli giustizia, per quanto sia solo poetica.
Può commentare la poesia inedita presentata?
Ogni poeta, come accennavo più sopra, è un misto di determinismo (molto) e libertà (pochissima). L’inedito parla appunto di questo: c’è una voce che si ribella, ma lo fa nel linguaggio – metrico, in questo caso – del suo avversario-rivale-usurpatore. Purtroppo, ciò che conta non è il contenuto, ma appunto il contenente; non il messaggio, ma il mezzo. Quindi lo scacco è matto.
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Tetta
Vorrei dire a quell’altro
che si spaccia per me
e che va in giro millantando versi
che sarebbero miei
che io non sono come crede lui;
che sono invece abbastanza diverso
da quello che lui dice che io sono,
e soprattutto da lui;
che per esempio io detesto la rima
odio l’endecasillabo
non sopporto gli iati
e tuttavia ho il diritto di esistere
quanto o di più di lui;
e che la smetta di usurparmi, dunque,
l’imperfezione che mi spetta
come a un figlio qualunque
che ha ciucciato la tetta.
Stefano Strazzabosco