Pier Mario Fasanotti
Un libro di Osvaldo Guerrieri

Quell’amore bestiale tra Dino e Sibilla

Verosimiglianza e immedesimazione. Ecco gli ingredienti di “La Signora Sandokan” in cui l’autore presta la sua voce a personaggi illustri che si raccontano: l’Aleramo, Gadda, Samuel Beckett e la moglie di Salgari ricoverata nel regio manicomio di Torino

La signora Ida Salgari, moglie di Emilio e madre di quattro figli, nell’aprile del 1911 venne portata nel regio manicomio di Torino, reparto indigenti. A casa non poteva più stare: urlava, spaccava mobili e piatti, era aggressiva con tutti. La diagnosi: alienazione mentale, paranoia, irritabilità della demenza precoce. Ida, che il marito chiamava Aida in quanto ex cantante e attrice a Verona (città natale), nella sua cella psichiatrica, racconta, grida e parla da sola. La sua voce è stata catturata in modo insolito e brillantissimo da Osvaldo Guerrieri. Il quale compie un’operazione letteraria sulla scia della verosimiglianza e dell’immedesimazione. Lo fa con Ida, ma anche con Carlo Emilio Gadda, Sibilla Aleramo e Samuel Beckett, nel libro intitolato La Signora Sandokan (Beat editore, 157 pagine, 9 euro). Di solito gli scrittori danno parola ai propri personaggi, spesso velati di autobiografismo, o a illustri del passato creando così romanzi storici.

la-signora-sandokanRipartiamo da Ida (Peruzzi da ragazza), «in questa casa di sputo e di occhi persi, occhi nocenti, occhi morenti, occhi rosicati». Chiama spesso l’infermiera Anna, la scongiura, la inonda di oscenità chiamandola assassina, bagascia, figlia di Giuda, mona sconsacrata. A volte, ricordando il suo passato veronese «si muove per la stanza ancheggiando, canticchiando senza parole, mimando un’esibizione da palcoscenico, un po’ sfrontata, malinconicamente grottesca». Le torna in mente il periodo in cui Emilio la corteggiava in modo testardo fino a quando ci fu il primo amplesso, appassionato e «di ferro». A se stessa confessa che Emilio, «pollastro ignorante» fin dall’inizio le dava dispiaceri tradendola con altre, «le madamine, le cocottine, le smorfiosanti, e pure qualche madamazza… miaulavano le porche, a bocca stretta… come cul de galina».

Invece di andare all’osteria per svagarsi, Emilio correva dietro alle donne «che snasava come un cane». A casa scriveva a cottimo. E lo doveva fare senza tregua in quanto pagato a pagina da editori strozzini, un centesimo a pagina, tre romanzi l’anno. Accadde che per cinque giorni all’autore de Il corsaro nero venne la febbre alta. E allora Ida afferrò la sua penna sostituendolo come autore de I predoni del Sahara. Lei intimorita dalle parole e col timore di fare brutta figura, fu invece lodata dal marito («hai fatto un buon lavoro, brava»). Emilio detto “il capitano” si documentava e inventava un’avventura dietro l’altra in mari lontani dove non era mai stato. Trasformava il Po in fiumi orientali, in oceani, «la sua Cina era il tinello di casa, con le tempeste e le onde spaventose». Ida lo aiutò sempre nelle ricerche storiche e geografiche, scrupolosamente. Non manca la tenerezza dei ricordi: «Aida mi dice, dimentichiamo in questo momento tutto ciò che può aver offuscato la nostra vita e continuiamo sempre sogno d’amore». Vivevano in mezzo agli stenti, tanto da raccogliere nei prati certe bacche dalle quali estrarre l’inchiostro. «In questa reggia di matti», dice, nessuno della sua famiglia l’andò mai a trovare. Osvaldo Guerrieri alla fine del capitolo dedicato a Ida, la ritrae in tutta la sua tragedia: «questa luse me tormenta, me capona, me castra, mi squarta in total macelleria…vorrei spegnerla, soffocarla con la rabbia di un infanticidio porco».

Meno drammatico ma certamente aspro il periodo in cui Sibilla Aleramo amoreggiò, a 56 anni, con il poeta Dino Campana, poi rinchiuso in un istituto psichiatrico. Un amore furioso, ma anche pieno di botte (dell’autore de I canti orfici), di insulti come «tu sei la troia dell’intera letteratura italiana, sei una donna pattumiera». Pur messa fortemente in guardia da molti intellettuali tra cui Emilio Cecchi, Sibilla perseverò. La prima volta lo raggiunse nella sua baracca in mezzo al bosco: una serie di amplessi furiosi, «Dino non mi dava requie, non si dava tregua, bruciava su di me tutto il suo desiderio, senza sosta, né per lui né per me». Le chiedeva ossessivamente di elencare i suoi amori, lei ammise a denti stretti di essere stata l’amante di Giovanni Papini. Non la baciava soltanto, a volte la mordeva. Farfugliava e diventava violento. A tal punto che, a casa di lei a Settignano, qualcuno intervenne – «sono due bestie, disgustoso!» – e ospitò la scrittrice. Durante un soggiorno a Marradi, la cittadina natale del poeta, «Dino finalmente ammise di essere malato e cominciò a desiderare di essere curato». Finì in una casa di cura psichiatrica, dopo aver detto a Sibilla: «Ti amerò con la parte migliore di me stesso». Campana, tra l’altro, era affetto da infezione luetico-degenerativa. Il medico, giustamente, avvisò la Aleramo: si curi, signora.

gaddaSpiritoso, ma anche molto veritiero, Osvaldo Guerrieri quando immagina l’incontro tra Gadda e un giornalista romano. Il gran lombardo, che risparmiava fino all’osso, abitava all’estrema periferia romana. Ombroso e garbatamente un po’ lagnoso e formale. Vita sociale zero, dopo aver lasciato i programmi culturali di RaiRadio tre. Frase ricorrente, sfogliando l’album familiare: «Non sono nessuno… la mia opera è modesta, non val la pena di occuparsene». Sì, questo Guerrieri fa dire all’autore dello strepitoso Quer pasticcio brutto di via Merulana , de L’Adalgisa e de La cognizione del dolore. Il giovane reporter che faticosamente lo intervista è ben consapevole del valore e dell’assoluta originalità delle sue opere: «…lo scrittore misterioso che non usciva mai dall’eremo delle sue parole così inaspettate, dal mitragliamento parodistico-onomatopeico dentro cui s’agitavano il birignao delle contesse, il dialetto degli spazzini, il disincanto dei funzionari siculo-partenopei». E poi racconta: «Una sola cosa sento di doverle rivelare: debbo a mia madre la condanna della mia vita. Debbo a lei l’essere riuscito ingegnere. Il più grande choc l’ho avuto il giorno in cui mi sono laureato. Per me è stato come una ragazza condotta a un matrimonio sbagliato». Lavorò sia in Sudamerica sia in Italia e divenne il sovrintendente igienico-sanitario «dei cessi del Vaticano». In realtà amava il latino, il greco, la filosofia, «in realtà noi eravamo poveri, la mia famiglia aveva le finanze stremate». Infine: «Il senso dell’ingiustizia è sempre stato molto forte in me… se qualche volta ho avuto accessi quasi iracondi contro terzi o quarti o quinti, non è stato per malanimo o cattiveria, ma per gli choc che ho subiti da bambino».

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