Le poesie di Beloslava Dimitrova
Natura matrigna
L’uomo nasce in un contesto violento e selvaggio e non gli basta l’intelletto per elevarsi, perché quel contesto lo plasma per sempre. Ecco perché secondo la poetessa bulgara, autrice della raccolta “La natura selvaggia”, l’evoluzione umana è deplorevole…
Non risparmia nessuna forma di vita la poesia di Beloslava Dimitrova (Sofia, 1986), proposta ne La natura selvaggia (Arcipelago Itaca, 72 pagine, 12 euro), con traduzione di Emilia Mirazchiyska e Danilo Mandolini, anzi viviseziona con l’uso di versi chirurgicamente precisi non solo la condizione odierna dell’uomo, ma anche la relazione di questo con il circondario naturale, con il regno animale nonché coi suoi simili.
Attraverso una fredda esteriorizzazione dell’io, il soggetto comunicante attraversa corpi umani e bestiali, in una commistione continua al fine di dimostrare come l’evoluzione umana sia da deplorare: l’autrice ci pone di fronte a uno scenario che richiama il pensiero filosofico di molti giusnaturalisti, in quanto l’uomo nasce in una natura violenta, selvaggia appunto, e solo mediante l’intelletto e il patto d’unione riesce a elevarsi, strappandosi così da quella situazione di costante pericolo. La poetessa bulgara (nella foto), però, suggerisce un’interpretazione tutt’altro che positiva dell’uscita da quello stato primordiale: la natura non è un contesto che plasma l’uomo, non è l’assenza di regole o vincoli che ne determina la pericolosità, è invece l’uomo stesso, per sua stessa natura immodificabile, a reiterare tali condizioni poiché sono aspetti nati e cresciuti nel terreno dell’io profondo.
Appare dunque una finzione ciò che egli ha costruito, in termini individuali e sociali, essendo egli non meno selvaggio dello stadio da cui proviene. E non c’è violenza più grande che reiterare questo stato di cose (prendi questo veleno / avvicinalo alla tua bocca / mentre sei incinta / ti supplico) in cui nessuna vita può essere considerata né sacra né capace di sovvertire l’ordine esistente (le acque si rompono / la vita comincia / il miracolo muore) per cui è necessario evocare un annullamento nichilista (aspettiamo / che il Mondo ricominci / daccapo), una fine che porti, se proprio necessario, alla rinascita dell’uomo con parvenze più animali e meno umane (due animali si amano / in particolare per questo li invidio) sebbene con il regno animale si condividano i lati peggiori (si veda la poesia Branco).
Profondamente antropologica, graziosamente altalenante nella scelta del soggetto narrante, Beloslava utilizza una lingua di ghiaccio, estraniante: non lascia spazio alla punteggiatura bensì permette al ritmo del suo linguaggio crudo ed esortativo di rivelare le proprie intenzioni. In tutto il libro si può rintracciare un filo ruvido che ha sapore di morte e giudizio, di attenta condanna e speranza che nulla di ciò che è si ripeta (che il miracolo dell’evoluzione non accada / che non appaia l’uomo) senza cadere mai in una dramma soggettivo o individuale, ma anzi raccogliendo le forze per una sentenza di specie. E il martello batte forte, implacabile, e urla: “il mondo è altro”.