Suoni (e poesia) di strada
Musica per viaggiare
Fermatevi in Piazza Trilussa, a Roma: troverete Alice Hills, una ragazza di Berlino che suona per il gusto di suonare e incontrare il mondo e la vita. Una figura eterea, un po’ hippie un po’ bohémienne, che contraddice i ritmi, le atmosfere e i vizi che oggi vanno per la maggiore
Fumare, appesi di spalla a un palo, sperando di non pensare a niente, perché dopo una giornata di lavoro con un’altra che s’affaccia alla mente non appena ti rendi conto che son già le sette di una nuova sera, probabilmente uguale ad altre mille sere che hai vissuto, e speri che non sia invece uguale a quella di domani, se non altro perché pensi – ti sforzi di pensare – che ogni giorno è un po’ rinascere, se non proprio tornare a vivere. Fumare, seduti adesso invece sugli scalini di Piazza Trilussa, cercando di allontanare il peso dei ricordi, perché sì, vuoi concederti un attimo di sospensione, adesso che son improvvisamente già le sette e mezza.
E ti stupisci perché non sai capacitarti di come sia possibile che da una sigaretta all’altra sia passata già mezz’ora, quella mezz’ora che avresti dovuto impegnare a rilassarti e che invece t’è servita solo per far crescere una leggera brezza d’ansia: è di mezz’ora in mezz’ora che prende forma il tempo. Il tuo tempo. Che non è mai uguale a quello degli altri, ognuno quadrante e lancette a se stesso. Fumare allora non è diverso dal contare i giorni che mancano all’estate, alle ferie, alle vacanze da scuola, magari al matrimonio, al viaggio in India, all’esame o al colloquio di lavoro. E sì che non sei solo, qui, a Piazza Trilussa, quando son le sette e mezza, e non sei nemmeno l’unico che fuma, ce ne sono tanti come te. E poi c’è chi beve, chi scribacchia su un taccuino, chi stringe la mano al compagno o alla compagna. Ma non c’è quasi nessuno che parli.
La piazza forse più caotica di Roma, quella dei turisti e dei ritrovi giovanili, intitolata al poeta della romanità più sanguigna, Piazza Trilussa e i suoi scalini, i suoi sampietrini sempre in agguato, è da una settimana che più o meno dalle sette e mezza alle nove inoltrate si trasforma in qualcos’altro.
Un anfiteatro improvvisato, un’arena, un’effimera sala da concerto, un auditorium a cielo aperto dall’acustica imperfetta in cui svetta libera una voce – il Lungotevere e le stelle che fan da sfondo e tetto non trattengono né osteggiano quel canto.
Fumare, bere, scribacchiare, stringere: ecco che allora ognuno cerca il modo che più gli è congeniale per accompagnare l’unica azione che si ritrova costretto a intraprendere: ascoltare. E guardare, certo, perché quella voce e quel canto vengono da qualcuno che sta in piedi sorridente e concentrato al centro esatto della Piazza, senza scarpe sopra un telo che resiste al vento: a tenerne i lembi saldi bene a terra ci sono una cassa, un’asta da microfono e una scatola-salvadanaio. E un cartello su cui sta scritto un nome, il nome d’una ragazza, di quella ragazza, di questa ragazza che gira per l’Europa («Sono stata anche in Australia, però!») a far concerti in strada o dove capita, purché ci sia un pubblico disposto a farsi orecchie. Perché se è vero che non c’è arte senza vita, non c’è bellezza senza contatto.
«Bisogna muoversi, conoscere, contaminarsi, lavorare: non puoi startene solo chiuso in casa sperando che vengano a chiamarti. Devi darti da fare ogni giorno. Quando non suono, compongo; quando non compongo, studio: quando non studio, vado in giro, esco, incontro. Non basta una webcam o un canale Youtube per essere qualcuno: il tuo pubblico devi incontrarlo!».
Alice Hills, classe 1992, tedesca di Berlino, uno scricciolo di biondo e d’occhi azzurri, bianca come la luna che non fuma né beve né scrive né stringe ma ascolta anche lei, è arrivata a Roma a metà maggio e ci resta fino al 1° di giugno. Sull’aereo ha imbarcato una valigia (qualche vestito a fiori, shorts, gonnelline e calze latte) e una chitarra acustica. «Amo viaggiare per far conoscere la mia musica. Ma non programmo niente: ho comprato il biglietto tre giorni prima della partenza. Non che a Berlino si stia male, no: Berlino è un gran bel posto. Però sento il bisogno di andarmene, ogni tanto. Mi faccio nuovi amici in ogni città che visito. Qui a Roma son tutti gentili, mi trovo bene. E poi adoro la pizza!». In una contemporaneità ipertesa e caotica, dove si fa a gara per accaparrarsi un quarto d’ora di celebrità, arrivando a costruire l’immagine di sé più vendibile e alla moda, dandosi più o meno consapevolmente in pasto a talent show e cavalcando l’onda-radio del momento, questa giovanissima cantautrice ha scelto una strada che definire in controtendenza è riduttivo. Eterea creatura un po’ hippie un po’ bohémienne, lontana dai suoni e dalle atmosfere che oggi van per la maggiore, con un repertorio di cover che spazia dai Nirvana a Jeff Buckley, passando per Alicia Keys e Hozier, e una serie di canzoni proprie («Scrivo sia i testi sia le musiche, partendo da una frase che mi viene in mente e a cui cerco di dare poi la giusta melodia. Mi sa che le mie sono tutte canzoni tristi: però in effetti io sono felice!»), sembra arrivare direttamente dagli Anni Settanta e da quel Woodstock che guarda con nostalgica ma attiva ammirazione: «La musica dev’essere un modo di stare veramente insieme, di creare vera socialità. Gli attacchi al Bataclan di Parigi e al concerto di Manchester ci fanno capire ancora di più come un musicista abbia il dovere di non aver paura e di impegnarsi: un concerto è un momento di grande comunione, dove persone diversissime tra loro stanno insieme e condividono una stessa emozione. Esseri umani lo siamo tutti, e la musica ce lo ricorda ogni volta».
Senza effetti speciali né sovrastrutture, fa a pezzi le resistenze emotive di ognuno dei suoi ascoltatori grazie a una voce che ha la purezza e la potenza del diamante: son pochi quelli che riescono ad andarsene prima che il mini-concerto sia finito, perché la condizione in cui ci si trova non è diversa da quella del rapito. Del rapito che s’innamora del rapitore. E certo ancora fumi, e certo ancora bevi, e certo ancora scribacchi o stringi mani, ma sei in un’atmosfera di tale magnetismo che se la statua di Trilussa prendesse vita, non te ne accorgeresti, preso come sei da queste note limpide e però così vissute e quasi tormentate che sgorgano da Alice Hills. Quasi le vedi, le note, e le senti addosso, come gocce di una pioggia inaspettata che se bagna non urta, perché per quanto fitta e intensa, non è mai violenta.
(Un po’ quel che succede quando s’ascolta Joni Mitchell, la cui musica e la cui lezione Alice ha ben presente: «Adoro Joni Mitchell, non solo come cantante e musicista, ma anche come donna: per quanto la società sia cambiata, ancora è forte il divario tra uomo e donna. Se sei un maschio è tutto più facile, anche nel mondo della musica…»).
Fumare, dunque, sugli scalini di questa piazza nel cuore di Trastevere, da soli in mezzo ad altri umani, tutti singoli e singolari, tutti separati, ognuno con i propri pensieri e pensieri di ricordi, coi propri progetti da portare avanti o ormai da seppellire, con la propria vita, ognuno, e però tutti adesso uniti di fronte all’apparire inatteso di questa giovane artista, umana non più né meno di tutti gli altri.
Eccolo allora il senso profondo di un viaggio che, senza meta certa, si nutre di slanci e alimenta l’incontro: in un’Europa che crolla a pezzi, dove le macerie di ieri sono i mattoni dei muri di oggi, con tutto il mondo in fermento tra terrore e terremoti, mentre montano l’odio e il nazionalismo, ritrovarsi per caso, senza intenzionalità, a condividere lo stesso momento, trafitti tutti quanti dallo stesso canto, è un’esperienza estetica e politica di fiera commozione. «Bisogna lottare contro l’ignoranza e la paura del diverso: sono queste due, l’ignoranza e la paura, che generano razzismo, che alimentano il fascismo. Io con la mia musica cerco di fare questo: mettere insieme, condividere». E questo in fondo è proprio il senso del viaggiare di Alice Hills, l’obiettivo dichiarato, senza pudore o indugio, della sua musica e della sua voce, filo sottile di un ago sottilissimo che con la pazienza delle pietre e l’ingenuità dei sogni attraversa a piedi mezzo mondo per suturare strappi e annullar confini.
E poco importa se resta «ein Hauch um nichts», «un soffio in nulla», per dirla insieme a Rilke, quest’ora o questo attimo d’estrema comunione. Se ne vanno tutti, alla fine, qualcuno con Songs of Love and Despair, il cd che Alice s’è autoprodotta, qualcun altro con lo smartphone zeppo di foto e video, ognuno di nuovo dentro la propria singolarissima vita – non importa perché se non ci sarà più, un momento come questo, ci sarà stato. Ci saremo stati, ecco: umani tutti diversi, con occhi tutti diversi, ma dallo stesso sguardo, per caso in mezzo a un canto che ci riguarda tutti. Ma nessuno se lo immaginava.