Un racconto "intimo"
Morte, passione, resurrezione
«La notte, pretendeva sempre di tenere a portata di mano, sul comodino o sul letto stesso, una piccola torcia: per controllare, al buio, l’ora; ché il tempo – diceva –, per lui, non s’inceppasse»
«E per quanto amare, dolorose, angoscianti siano le cose di cui si scrive, lo scrivere è sempre gioia, sempre “stato di grazia”. O si è cattivi scrittori» (Leonardo Sciascia)
“Non conosciamo veramente nulla, di questo mondo; non siamo al mondo” – per tutto il tempo (compresso) della malattia di mio padre fino al giorno in cui, morente, lo guardavo dissolversi, già da giorni ombra di se stesso, non ho potuto togliermi dalla mente queste parole tratte dal Diario di un curato di campagna di Georges Bernanos. Accomunati – io che restavo, lui trapassato ancor prima di trapassare –, da questa cecità: è tutto questo mentre lui moriva; in verità spirato già dall’attimo in cui era stato costretto, con stizza, a cedere, a non più alzarsi da quel letto-culla dove avrebbe consumato i suoi ultimissimi giorni di atroce agonia. Il corpo malamente adagiato, in prospettiva quasi mantegnesca, su un lettino fatto marmo, per giorni e ore in cui eterna sembrava solo la passione. Eppure la morte di mio padre ha avuto il senso ultimo di uno choc e insieme di una rivelazione: ha avuto a che fare con la testimonianza; e, se non con il miracolo, con una speciale e (per me) incontrovertibile agnizione. Sensazione che è diventata in un lampo evidente certezza quando, per traslarlo dall’ultimo giaciglio e ricomporne le spoglie, abbiamo dovuto avvolgerlo nei lenzuoli ritorti, i piedi che si toccavano, riproduzione involontaria di un’iconografia del dolore solo adesso fattasi carne e avvertita in tutta la sua potenza di senso: per la prima volta in vita mia, anch’io ho afferrato quei lembi ritorti e benedetti! Mi sentivo come il personaggio di un sacro dipinto, come se i miei gesti si compissero (attesi e saputi senza mai prima averli conosciuti) naturalmente, obbedienti a una meccanica che avevo finora solo osservato nelle tele che riproducevano uno dei soggetti pittorici più rappresentati: la deposizione. Meccanica scevra da ogni sicurezza, concentrata nel solo incavo della fatica (come il Nicodemo della Deposizione di Caravaggio) – i muscoli tesi e impegnati a sorreggere il vuoto grave del corpo di mio padre –, senza nessuna rinascimentale illusione di leggerezza, sprofondato dentro l’incavo di quell’improvvisato sudario. A governare l’unanime teoria di affetti di chi, a quell’antichissimo rituale di passaggio, partecipava, da vivo.
Già non più cosciente, la dottoressa amica di famiglia, cattolica fervidissima, aveva consigliato di recitare in sua vece, come viatico, a voce alta, il Salmo 90 – il salmo del combattimento spirituale, il salmo del soccorso angelico e della confidenza –, e di accendere, per accompagnarlo degnamente e sollevarlo dalla paura, una candela. Raccontava di come il morituro, addentrandosi nella notte della morte, sentisse il disorientato distacco dal proprio corpo, fosse addirittura capace di specchiarsi sul letto di morte. Nel transito spaventoso dall’angoscia alla gloria, il salmista, a certificare l’ineludibile verità, lascia la chiosa finale dell’invocazione a Dio in persona: «Lo sazierò di lunghi giorni e gli farò vedere la mia salvezza». A quella perentoria certezza, dentro di me, rispondeva un passo del Vangelo di Marco, quell’«Io credo, ma tu aiuta la mia incredulità!» del padre del ragazzo indemoniato che supplica Gesù di intervenire e salvarlo. Probabilmente suggestionato dalla rabbiosa avidità con la quale leggevo, proprio nei giorni in cui mio padre, sulla soglia di un’estate precocissima, se ne andava, il Romano Guardini dell’Antropologia cristiana.
Oltre al ricorrente incubo di non riuscire, per quanto si sforzasse, a passare da un pensiero al successivo (come si fosse in lui inceppato qualcosa), patendo nel fisico – in quel sempre più dilatato dormiveglia –, tutta l’insostenibile fatica di simile impossibilità, sovente era pure tormentato dalla sensazione (dacché le sue condizioni di salute erano precipitate) che in una stanza attigua ci fosse un suo doppio, un perfetto gemello (mio padre era figlio unico): e lui ad affannarsi per cercare di sapere come stesse l’altro, quel fratello che non aveva mai avuto, ma di cui con insistenza si ostinava a raccontarci. Scoprimmo solo in seguito, confortati dal ricordo di mia madre, che dopo di lui mia nonna Signorina aveva avuto un’altra gravidanza, presto naufragata in un doloroso aborto. Di questa strana sensazione, parlandone con me e mio fratello, se ne meravigliava.
La notte, pretendeva sempre di tenere a portata di mano, sul comodino o sul letto stesso, una piccola torcia: per controllare, al buio, l’ora; ché il tempo – diceva –, per lui, non s’inceppasse; ma anche, ne sono oggi come allora convinto, per fare luce (per quanto fioca) su quella porta verso la quale doveva già rivolgere lo sguardo. Sempre di notte, chiedeva si tenessero aperte le imposte: la noce del lettino diventava una barca, un curioso romboide, proiettato nella penombra notturna; la stanza somigliava a una vela che s’increspava nell’aria calda e languida di quell’ultima estate, in cui la parola papà aveva, sulla mia bocca, i giorni contati (prima di diventare la parola scavata di un ostinato mantra notturno).
Tuttavia la sua malattia non mi è mai sembrata “per” la morte: ma “dalla” morte bisognava passasse per farci toccare con mano un piccolo capolavoro di gloria ignota e resa tangibile dalla parabola fulminea della sua passione (fu proprio questo il senso ultimo del miracolo). Nell’attimo stesso del suo trapasso, nel banale e automatico prendersi cura di quell’involucro che era stato, in vita, mio padre, nel comporsi naturale di una domestica deposizione, ho capito che si consumava un risveglio che nemmeno adesso riesco bene a connotare: e fu come se, insieme a lui – Didimo testimone –, fossi morto un po’ anch’io. Epperò egli risorto, nel mio pensamento, più che come un esausto Lazzaro, come il figlio della vedova di Naim, ritornato (eterno?) «giovinetto». Ha saputo insegnarci, insomma, come si muore, percorrendo l’intero perimetro che principia da un cupo risentimento e giunge alla più docile accettazione, rivelando così tutta la forza pia della sua anima buona. Certo, furono giorni anche di furia e di sdegnato disappunto per non essere più quello di prima, lui che aveva bellamente rifiutato di affinare quella preziosa forma d’arte in cui consisterebbe, per Hillman, l’invecchiare. I segni evidenti del male – prima sotterraneo infine palesatisi con inaccettabile virulenza –, insidiavano quel fisico di zangleo mezzosangue che fino a quel momento noi tutti avevamo voluto credere progettato per durare cent’anni e sconfiggere l’incedere del tempo. Allevatore di polli, cacciatore (poi pentito), costruttore-ingegnere di macchine (natanti e volanti), taratore di antenne, cuore di burro e bullo da far west, volatore, travet della famiglia e inappagato corteggiatore del sogno – inghiottito da un sonno che sonno non era –, stava l’Aviatore, in poltrona o sul divano, con la bocca spalancata, assai somigliante all’uomo che arde d’angoscia del celebre Urlo di Munch, tuttavia sollevato da ogni sfogo, svuotato da ogni ansia, ridotto a puro sguardo; maschera che si concede, ubbidiente, all’ineluttabile resa senza condizioni. Come a dire: «hai vinto Tu! Solo perché hai barato…».
Come per Basilisca – che fui, al contrario, quasi del tutto incapace di assistere, aiutare, accompagnare, nel momento tremendo del tormento e della sconfitta della biologia – anche per l’Aviatore dovetti esser io a fare da Caronte perché acquisisse la carta d’imbarco per una «buona e santa morte». Se devo riandare a un’immagine viva di quella sineddoche di passione, morte e risurrezione a un tempo che fu il transito finale di mio padre su questa terra, non posso non pensare al momento in cui gli fu impartita l’estrema unzione… Fui io a capire cosa stesse, con affanno e le lacrime agli occhi – mite e deciso e appena contrariato –, impetrando: mimava il suo desiderio, le mani giunte, non più in grado di parlare, estinto anche l’ultimo alito di voce, preoccupato soltanto che riuscissimo a decifrare quel surreale segnale di fumo. Fu un lampo: l’annuire di mio padre, la corsa forsennata e saettante in strada, alla ricerca del prete alla vicinissima chiesa del Sacro Cuore di Gesù. Lo stesso donabbondiano e incredulo sacerdote – più che irritato, allarmato dal mio incalzarlo perché si affrettasse, per strada, prima che svanisse la piena lucidità di spirito di mio padre –, lo stesso prete (crudele ripetizione) che, sempre a perdifiato, ero andato quasi a staccare dalla tavola da pranzo, quattro anni prima, perché si precipitasse, sul filo di lana, a dare i sacramenti a una già annebbiata Basilisca. A lei, di contenuta e wertmulleriana ironia, morta il 20 di dicembre, quando, per un caso astratto, mancavano ancora «quattro giorni a Natale» – era questo uno dei nostri sketch domestici preferiti, infine rivelatosi come sconcertante chiave di volta del suo destino –, non ho saputo regalarle che compagnia e coatta convivenza, in quella che era diventata, anzitempo, la stanza della dolora. E distici sciolti e tellurici, a mero risarcimento, come a un’innamorata a cui, con rammarico, si pensa e si continua a riandare nel privato Quaderno delle ore:
* * *
I colpi nel comune dormiveglia non erano che i tuoi,
la mano che batteva la bestemmia porca della vita.
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Stare e non stare, vibrare d’inquieto vivere:
tu mi guardavi, io ti capivo e nulla dicevo.
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Si stava e si sta ancora lungo la strada di sabbia,
sul litorale, dentro quella luce bianca che acceca.
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Costretti, tu ed io, a dividere una stanza ampia,
fatta di cose e dolori sparsi, di pianti rotti ai quattro venti.
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E giace dietro una porta della casa grande, metafisico segno degno
d’un De Chirico, l’ortopedico sostegno che t’aveva reso cosa estranea.
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Eruzione discontinua, se a toccarti era (solo per un attimo) allegria: cadenzata e martellante risata a raccontare presente un’altra vita, conosciuta.
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Perfino mi manca quel tuo gusto per gli interni, i giusti oggetti, gli abbinamenti perfetti che sapevi intonare ad ogni vita.
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Solo mi aggiro premendo l’occhio provato – disegno dei passi sulla sabbia – dal puro orizzonte mi chiama forte un languore bianco di te, del tuo e del mio padre.
Cocci d’una vita vissuta gomito a gomito, difficile amorosa convivenza la nostra, per quel tribolare che veniva da lontano prima dell’irrompere del cancro, inevitabile conseguenza (almeno sempre così mi parve allora, e ancora e più mi pare oggi, quando di anni ne sono trascorsi abbastanza). Di tanto convivere coatto, con rabbiosa tenerezza, ricordo la pratica, per mantenersi in esercizio, a esorcizzare uno di quei crolli in cui si trasformò (rovinosamente per la sua salute) da un certo punto in poi la sua vita – essendosi trovata, di colpo separata dal marito (che venerava) e senza lavoro, costretta a ritornare a vivere, per beffarda necessità, a casa con i genitori –, di trascrivere integralmente, digitandolo al computer, “Il Gilgul di Park Avenue”, uno dei racconti del Nathan Englander di Per alleviare insopportabili impulsi, libro che l’aveva catturata e divertita. Vaticinio, ancora per poco irriconosciuto, di una protesta allora consegnata (lo realizzo solo ora, scrivendone) a un innocuo nevrotico addestramento: nella Kabbalah ebraica, il “Gilgul Neschamot” è, infatti, il “ciclo dell’anima”, per cui si parla anche di “Nizozot haneshamot”, ossia di “scintille delle anime”; separate dai corpi, le anime erranti, nel loro violento staccarsi da essi, somiglierebbero a delle schegge impazzite capaci di dar vita a delle scintille. E me li immagino ora – Basilisca e l’Aviatore, padre e figlia –, radiosi atomi, a fare scintille, a rifulgere d’un amore postremo e indelebile, nel cielo parallelo e di vetro della loro assenza.
Quando entrai facendo da scorta all’imbarazzato don Elia, mio padre stava là, dove l’avevo lasciato prima di precipitarmi in strada, adagiato in poltrona al centro della stanza, le mani giunte appoggiate sul ventre, gli occhi appannati, l’allarmata consapevolezza di aver consacrato, a fatica, l’ultimo barlume di lucidità, in vista di quel momento. Prima dell’estrema unzione, il prete volle comunicarlo col solo vino e una minuscola particola che con gran fatica riuscì a mandar giù. Esaurita la meccanica litania del Viatico, estrasse dal sacchetto di seta violaceo il vasetto dell’olio degli infermi: il pollice destro levato e, intingendolo ad ogni unzione, tre volte lo appoggiò a mimare una croce – sulla fronte, sulle palpebre, sulle mani… Ad ogni segno meccanicamente ripetendo la formula rituale: Per istam sanctam untionem… Lì si arrestò. Non reggendo, don Elia, alla vista di quel corpo consunto e rinsecchito di quell’Ercole patuto che non era stato capace di metabolizzare l’oltraggio più diabolico che a un padre possa capitare di subire: l’innaturale vedersi sopravanzare, nel congedo da questo mondo, dalla figlia; la più grande, la più amata, la più ostile: Basilisca.
In quel retablo che aggalla spesso dalle trame scucite della mia memoria, campeggia su tutto la disposizione antirituale di noi presenti: raccolti in ordine sparso (concrezioni di silenzio e solitudine) al capezzale dell’Aviatore; eppure con un che di teatrale per quelle due chiese improvvisate ed entrambe disadorne, voci mute di sentimenti egualmente dominanti e opposti: io, mia madre – e alle nostre spalle come una ferita bianca, una presenza, una fatua scintilla –, confidenti nell’Amore (che tutto può, tutto guarisce e tutto trasforma); i miei fratelli, a disegnare un ghirigoro di atterrito silenzio misto a un moto d’impotente rabbia, trattenuta a stento (e che quelle terminali orazioni solenni subivano quasi come irritante bestemmia contro il nulla). Limen metafisico, le mani giunte e strette di mio padre, all’altezza della bocca, due lagrime brune a rigargli lente – perpendicolari agli occhi incerati –, l’incavo color ocra delle guance.
La sua ribellione, nei mesi della malattia, era passata attraverso lo scrupoloso mai retrocedere dal rispetto di sé, della sua indole, della forza del suo carattere: metodico, ostinatamente ordinato, inforcava le lenti, si sedeva al tavolo della camera da pranzo per riporre in una carpetta rossa (secondo un principio rigorosamente cronologico) esami clinici, prescrizioni mediche, terapie… sfogo a un bisogno di esattezza che, come il signor Palomar di Calvino, lo vedeva impegnato con pervicace tensione tassonomica a sfidare e sfatare l’ingovernabile entropia dell’universo. Così come non stupiva più di tanto, la fluidità di pensiero (finanche negli ultimi giorni), quell’esprit de geometrie, perfino nel costruire, in un italiano impeccabile, le sue “istruzioni per l’uso del mondo” che sin da bambini ci aveva consegnato. Era il compulsivo bisogno di dire, spiegare e spiegarsi ogni cosa: disteso sul letto (dal quale mai più si sarebbe rialzato), con voce flebile, indugiava nell’illustrarmi il basilare principio fisico per cui il contenuto della flebo entrava in circolo nel suo corpo… Anche riguardo al tiro mancino di quel male che lo aveva aggredito con inimmaginabile ferocia, confessava di comprendere tutto, assolvendoci all’istante dalle reticenze e dalla prudente vaghezza delle nostre spiegazioni. Una volta, volendoci lui, paradossalmente, rassicurare, mi disse: “Ditelo alla dottoressa: io non sono una persona ignorante”. Ammissione di una lucidità alla quale non poteva derogare, vanto da esibire fino allo stremo, in una dissipazione che faceva del discernere il solo plausibile carburante. Tarocco riassuntivo d’una vita spesa a mietere sogni, a soddisfare curiosità: quell’ansia romantica a conoscere, a dominare, a esperimentare, ne faceva una creatura bina, con i piedi nel Novecento e la testa nell’Ottocento. Deus ex machina delle nostre vite di figli sgangherati, anche i suoi messaggi in bottiglia altro non erano che schiarimenti da concedere in primis a se stesso: la consapevolezza del male, il rammarico di lasciarci (il dispiacere, soprattutto, di doversi separare da mia madre), le lacrime amare, i miti singhiozzi per le “soddisfazioni da dimenticare” (come le chiamava lui) – per ogni sortita nel bel mezzo della vita. Prima di allentare per sempre la presa gli premeva che ogni cosa andasse nel verso giusto, che tutto procedesse come doveva anche dopo di lui e, nel vederci inutilmente affannati e goffi nell’accudirlo, ridendo, a mezza voce, spesso diceva: “quando sarò arrivato là – se è vero che esiste un aldilà – ne avrò di barzellette da raccontare!”. Nel tempo a perdere di ore bucate, slabbrate dall’inedia o visitate dal dolore, l’Aviatore perciò assegnava compiti, impartiva a ciascuno speciali affidamenti: ché non mancasse, morto lui, protezione alle sue figlie, disorientate dal dolore; ragguagliava mio fratello, l’unico a vivere ancora nella casa del padre, sul da farsi, per quando avrebbe detenuto (malgré lui) il pesante scettro della conduzione della famiglia. A mia madre, invece, non riusciva a raccomandare nulla: era lei, ne era sempre stato convinto, la vera colonna portante, regina di quel matriarcato dolce e schiacciante che, facile intuirlo, si sarebbe consolidato dopo la sua dipartita. E a me, l’ultimo di sette, l’eterno studente, l’intellettuale di casa? Attendevo che proferisse un viatico prezioso per il dopo, che avesse la forza di un’illuminazione, che m’aiutasse a vincere la mia disorientata inerzia, il giorno che invece mi disse, quasi con malcelato rammarico, che avrei dovuto, una volta per tutte, prendere le distanze dall’ambiente universitario (peraltro ricorrendo a una colorita espressione dialettale che non lasciava adito a fraintendimenti). Null’altro. Se non questo pratico avvertimento di “stare alla larga” – dopo i sacrifici e l’investimento in anni e gioventù, in rigorosi e forzati esercizi di clausura intellettuale – da quello che fino a qualche mese prima era stato il mio elemento (e al quale, con immotivata speranza, bisogna ammetterlo, avrei desiderato quanto prima tornare). Lui che aveva sempre sostenuto, con orgogliosa fiducia, il mio desiderio di affermazione, adesso si congedava con quella finale palinodia di totale disincanto che ebbe, lo confesso, l’esito di mettermi irrimediabilmente in crisi e di farmi piombare in un periodo di sconforto. Per cui se mi chiedeva, che so, se avessi fatto a tempo a finire quel lavoro su certo Pascoli estremo di cui gli avevo parlato poco prima che si ammalasse, davo risposte evasive, sviavo apposta il discorso, cosa per la quale s’incupiva, attribuendo al suo male il malessere e il disorientamento di chi gli stava accanto (e dunque anche il mio, che riuscivo con sempre maggiore fatica a dissimulare). Allora toccava a me forzarlo a tirarsi su dalla poltrona, a mettersi in piedi per una breve confidente camminata, mano nella mano, padre e figlio, a misurare l’ampio corridoio come sghembe sentinelle bilicate sul nulla; entrambi a fare perno su quel bastone da patriarca sconfitto (la sola arma che si era scelto per la resa). Tornato seduto, in poltrona, le gambe coperte dal solito plaid scozzese che, vent’anni prima, Basilisca le aveva portato da Edimburgo, aveva un modo particolarissimo di ricompensare la mia insistenza: prendendomi la mano, cominciava a giocare con la mia fede nuziale, inseguendone, con la punta del dito indice, il contorno. Compiuto quel curioso rituale, mi guardava obliquo; gli occhi colmi d’indicibile tenerezza (fattisi, per un istante, da opachi limpidi) di quell’uomo già in dissolvenza erano la quintessenza, la perfetta ipostasi dell’amore paterno. Quella stessa specie d’amore che la sua dipartita, sentendo tutte il peso e la gioia stinta di prendermi cura di lui, io – che padre non sono mai stato – ho potuto egualmente sperimentare. Me ne accorsi una mattina, mentre lo assistevo nella oramai impegnativa operazione di radersi: lui con fatica a falciare la rada peluria ed io, dietro, a vigilare sull’involucro rinsecchito del suo corpo; riflesso nello specchio, eloquente immagine, un cambio di testimone, l’inversione delle parti, tra un figlio che si faceva padre e un padre costretto a farsi figlio, prima di andarsene.
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Nelle immagini, il ciclo di opere di Pablo Picasso dedicate alla morte dell’amico Casagemas.