Anticipiamo un libro pubblicato da Gaffi
Metodo Pampaloni
«Io faccio un po’ come faceva Croce e lo dico naturalmente con tutte le distanze da mantenere»: ritratto di Geno Pampaloni in uno degli "Insperati incontri" che Silvio Perrella racconta nel suo nuovo libro
C’è chi definisce le sue recensioni «il giudizio raccontato». Lui, Geno Pampaloni, con l’abituale «impasto di orgoglio e umiltà», dice di essere un recensore privilegiato: «Intanto vivo a Firenze, e quindi decentrato rispetto al potere editoriale, e poi non sono legato e nessuna casa editrice».
Ma queste sono ragioni che naturalmente non spiegano la sua autorevolezza. In lui convivono la consapevolezza che «le recensioni come tali hanno una funzione contingente, quotidiana, che si esercita nel momento in cui la recensione appare, consumandosi rapidamente»; e il netto giudizio che il tirar via è un peccato mortale». L’una e l’altra cosa sono necessarie per meglio cogliere quell’autoritratto del critico con il libro in mano che è forse una delle peculiarità più preziose dei suoi articoli.
È importante infatti rendere cosciente il lettore che «per dovere di mestiere e di puntualità, le recensioni si scrivono anche in viaggio, con il mal di stomaco o il mal di denti, assillati dalla fretta, nei giorni di scadenza delle tasse, con la mente a un appuntamento o anche ad altre fantasie». O, ancora, lasciar sbirciare il lettore nel proprio studio, magari nell’atto «di rimettere un minimo di ordine negli scaffali, aprire i pacchi degli ultimi arrivi accatastati nel corridoio, riprendere in mano con calma volumi e volumetti messi da parte in vista di una noterella poi sempre rinviata per il sopraggiungere di occasioni più urgenti».
E proprio questo rispetto per il lettore, questo interagire con lui come se fosse un amico hanno impedito sinora a Pampaloni di raccogliere in volume, com’è normale costume fare, le sue recensioni. Ma quando gli si dice che è un peccato, che le sue recensioni si leggono rimandandosi echi l’una con l’altra, lui risponde dicendo: «Forse se un giorno raccoglierò qualche recensione, gli unici due momenti a mio pare- re significativi di un certo discorso in qualche modo unitario sono gli articoli de La Fiera letteraria diretta da Cancogni negli anni Sessanta; poi gli ultimi due o tre anni de Il Gior- nale. Queste sono tessere di un certo disegno».
Ma qual è il metodo di Pampaloni?
«Io faccio un po’ come faceva Croce e lo dico naturalmente – aggiunge sorridendo – con tutte le distanze da mantenere. Leggo con il lapis in mano e segno le cose più importanti, sia le notizie, sia certi passi che mi sembrano indicativi. Prima di scrivere ripasso questi segni e appunto. Sono un lettore rapidissimo, però questa rapidità è compensata dalle trascrizioni. Spesso impiego più tempo a trascrivere e in qualche modo a commentare – faccio certi segnetti rossi, verdi, – che a leggere il libro». Poi, abbassando la voce, continua: «Qual- che volta dico ai miei figli che quando sarò morto uno dei pochi documenti che voglio siano resi noti sono proprio i fogliettini dove annoto le letture, che sono la prova che i libri li leggo».
A questo punto inevitabilmente si finisce per parlare della crisi della critica militante. Lui dice che certamente c’è, ma «non in modo così totale e radicale come dicono». E adduce due ragioni: «La prima è il prevalere dell’informazione sulla scelta di valore, che dà un alibi al recensore per cavarsela con poche frasi fatte e insieme crea una tendenza fortemente livellatrice. Insomma, escono tre libri oggi e sono tutt’e tre importanti perché sono tre novità. Ai tempi di Cecchi e Pancrazi questo non accadeva, allora c’era il dovere della selezione che oggi è scomparso totalmente. La seconda ragione, un po’ conseguenza della prima, è che molti i libri non li leggono. C’è quindi un degrado qualitativo che è anche morale».
Di recente L’Indice ha pubblicato uno speciale dedicato proprio al compito del recensore e diversi altri interventi vanno uscendo sulle pagine dei giornali. Pampaloni ha mandato al mensile torinese un suo pezzo, non ancora pubblicato, che sunteggia per noi: «Sono convinto che l’arte del recensore sia la citazione, come Croce e Pancrazi c’insegnano. Quando ci si riesce, attraverso un mosaico di citazioni si dà il senso del significato del libro e, soprattutto, si stabilisce un rapporto con il lettore, che è poi il compito fondamentale del recensore: dare al lettore una chiave per accedere al libro. Per questo, quando vedo una recensione tutta teorica, generalizzante, senza citazioni, la disapprovo, anche se intelligentissima, perché non serve. Il lettore non è messo in grado di dire: sì, hai ragione; no, hai torto. La citazione è come il diapason per il direttore d’orchestra, ti dà la nota, naturalmente se è quella giusta. A questo tengo molto: come vede, io sono un citatore incallito perché credo che la citazione sia una forma di giudizio trasposto. E questo i lettori cominciano a capirlo: la strada è quella di rovesciare il libro come un guanto, farne emergere il sottofondo».
Così ricordiamo la figura di Calvino, uno scrittore che, secondo Pampaloni, negli ultimi anni ha fatto della critica la sua punta di diamante, ancor prima della narrazione: «Sono dell’opinione che Calvino, dopo Palomar, che è già su un versante testimoniale, sentiva di aver esaurito la sua capacità fantastica, mentre si era reso conto di avere una funzione di mediatore e stimolatore non dissimile da quella che aveva avuto Vittorini. Questa funzione lui l’amministrava con più garbo, con strumenti meno diretti, meno energici, meno perentori, meno dittatoriali di Vittorini. Le Lezioni americane sono lo specchio di questa situazione psicologica; la loro forza sta proprio nella loro voluta e dimessa didatticità. Lo considero un libro positivo – dice, alludendo alla diatriba che si è creata su questo libro soprattutto tra Citati e Garboli – non so se sia bellissimo, ma non ha importanza; era quello che lui si sentiva e ha fatto con grande dignità. È un po’ la conclusione del suo terzo ruolo di scrittore: prima come narratore fantastico, poi come narratore che usa i materiali culturali, infine come…» saggista, concludiamo. «Saggista è una pa- rola che mi piace poco» risponde «perché troppo vaga, però sicuramente è una cosa che sta al di là e al di qua della narrazione, l’attraversa, come fa Garboli, e certo l’ultimo Calvino è su questa posizione».
Pampaloni è convinto che gli unici scrittori che scrivono ancora bene sono proprio i saggisti: «Oggi come oggi, i valori più certi della prosa sono loro: Macchia, Garboli, Citati, Siciliano, Magris, Calasso… sono certo meglio degli scrittori giovani».
Poi si sofferma sulle ultime cose di Citati, del quale è molto amico: «Non so per quale ragione» afferma «ma sta diven- tando un po’ pontificale, la sua prosa comincia ad avere sti- lemi molto ripetitivi. Il rischio che corre Citati è quello della parafrasi iperbolica». Comunque aspetta con molta curiosità l’annunciato libro narrativo dell’amico.
Quando gli si chiede proprio degli scrittori giovani, dice che è un po’ difficile parlarne, «anche perché è un momento abbastanza creativo». I nomi da seguire con maggiore attenzione gli sembrano quelli di Fortunato, della Capriolo e di Lodoli. Dice di essere stato un po’ troppo severo con il libro di Veronesi, «un libro abilissimo ma troppo disinvolto». Del- la generazione precedente gli sembra ci sia davvero poco. Su tutti emerge Celati, del quale ha rivalutato anche Le avven- ture di Guizzardi, che riletto adesso considera un libro forte. Tabucchi lo considera un po’ kitsch; Del Giudice molto abile e intelligente.
Per riparare alle esclusioni di queste generazioni dal suo panorama dei modelli e delle esperienze della prosa contemporanea, apparso nella storia della letteratura garzantiana, «ho promesso a Garzanti che prima o poi gli darò un libretto di massimo cento pagine, intitolato Il capitolo mancante».
Si parla dei maestri del nostro Novecento, «sicuramente uno dei secoli più ricchi della nostra storia letteraria». E se le opere di Vittorini e Pavese («per cui ho una viscerale passione») «come oggetti letterari in sé si vanno sgretolando», altri scrittori emergono alla distanza. Brancati, per esempio, «un grandissimo». «Senza di lui non ci sarebbe mezza letteratura siciliana: uno scrittore di una finezza e anche di una forza straordinarie. Il suo diario, per intensità e per trasparenza, è davvero stupefacente rispetto a tutti».
Con Pampaloni ci sarebbe da conversare per ore, ma concludiamo parlando di cos’è per lui l’amicizia, per lui che ha intitolato uno dei suoi rari libri Fedele alle amicizie. E parlando del di- sinteresse che sostanzia il valore dell’amicizia come quello della poesia, su cui vorrebbe scrivere un saggio, dice che uno di cui sarebbe potuto diventare molto amico è stato Fenoglio: «L’ho visto una sola sera, ad Alba, dove ero andato a trovarlo. Lui mi portò al famoso ristorante e albergo Savona dove facemmo una cena pantagruelica: tartufi, pernici, vini, lui era un enologo notevole. Mi fece una grandissima impressione, un grande personaggio. Poi è morto poco dopo. Quando ho letto Una questione privata, che probabilmente è il più bel racconto del dopoguerra, ho ritrovato le venature insieme disperate e vitalistiche che ave- va l’uomo. È un ricordo prezioso per me».
(1989)
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Il libro di Silvio Perrella, Insperati incontri da A a Z, pubblicato da Gaffi (440 pagine, 20 Euro), sarà presentato giovedì prossimo, 11 maggio, al Centro per l’arte contemporanea La Nuova Pesa di Roma in via del Corso 530, alle 18,30. Insieme all’autore ci saranno Claudio Damiani e Raffaele Manica.