La Biennale Arte di Venezia/3
L’arte della crisi
La tedesca Anne Imhof vince il Leone d'Oro con una performance che affronta la brutalità della nostra epoca con duro realismo. Ma tutti i Padiglioni stranieri riflettono sul conflitto tra creatività e disagio sociale
“Un’installazione potente e inquietante che pone domande urgenti sul nostro tempo e spinge lo spettatore a uno stato di ansia consapevole. Risposta originale all’architettura del padiglione, il lavoro di Imhof è caratterizzato da una scelta rigorosa di oggetti, corpi, immagini e suoni”. È la motivazione con cui la giuria della Biennale di Venezia 2017, presieduta da Manuel J. Borja-Villel, ha assegnato il Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale alla Germania, rappresentata da Anne Imhof (nella foto accanto), curatrice Susanne Pfeffer. Un’opera complessa il “Faust” dell’artista tedesca, classe 1978 e insignita lo scorso anno del prestigioso Preis der Nationalgalerie, che affronta la brutalità della nostra epoca con duro realismo. La sua opera-perfomance è un pugno allo stomaco nell’algida compostezza di questa edizione 2017 firmata Christine Macel. Al suo fianco amici performer, suoi coetanei dalla bellezza di ghiaccio. Nella sala dal pavimento trasparente giacciono catene, ciotole di palline di metallo, moschettoni; ritmo e sincronia è dato da suoni e rumori inquietanti. Il tempo è dilatato. Gli sguardi si incontrano, ma non c’è comunicazione in questa allucinante rappresentazione sadomaso del potere che si svolge tra passione e sottomissione, sofferenza e allucinazione. Qualcuno scivola sotto il pavimento, altri si esibiscono sbilanciati su plinti obliqui, altri girovagano, vestiti streetstyle, tra la folla, altri ancora cantano un canto solitario. Non più individui ma numeri, biotecno corpi oltre il gender. La tensione cresce quando in scena entrano due dobermann al guinzaglio, chiusi in un recinto a lato del padiglione: cosa che ha dato fuoco in questi giorni alle polemiche degli animalisti.
Una menzione speciale è andata a Cinthia Marcel che nel Padiglione del Brasile ha dato vita all’installazione “Chao de caca”, creando “uno spazio enigmatico e instabile in cui non ci si può sentire sicuri”. Si cammina su un pavimento fatto di inferriate saldate tra loro come quelle che coprono le fognature o i pozzi di ventilazione delle metropolitane; tra le sbarre spuntano ciottoli e paletti di legno su cui poggiano lenzuoli di cotone dipinti a righe bianconere, arrotolati sulla punta superiore. Un video di un gruppo di prigionieri, in fuga o in azione di protesta, ricorda decenni di ribellioni nelle carceri di tutto il mondo.
I Padiglioni stranieri che costellano i Giardini colpiscono per il loro affrontare con forza le tematiche contemporanee, denunciando, attraverso il gesto estetico, i punti di crisi sociali e di valori di questa nostra epoca travagliata. Lo fa poeticamente l’Australia con Tracey Moffat che, attraverso il duplice mezzo di fotografia e film, cerca di delineare gli scenari possibili oltre il suo personale orizzonte. “My Horizon è un’esperienza straordinaria; la toccante narrazione dell’artista australiana, a metà strada tra storia e fiction, solleva a livello globale la questione dei viaggi della disperazione degli esseri umani, il loro varcare i confini ed il senso di appartenenza, a prescindere da un tempo e da un luogo specifico. Disadattati e reietti accostati ai privilegiati: nel drammatico “Veglia”, barche stracolme di rifugiati vanno alla deriva mentre scorre il fermo immagine di divi hollywoodiani che guardano fuori dalla finestra, frammenti di film celebri a commento della tragedia in corso, una Elizabeth Taylor sconvolta, l’urlo fermo sulle labbra, Kathleen Turner e Julie Christie che osservano furtive con il binocolo.
Ed è dalla parte degli ultimi della terra anche Mark Bradford, artista di Los Angeles da sempre attento ai risvolti socio-politici dell’arte e in prima linea per le questioni di classe, razza e genere sessuale. Il suo progetto “Tomorrow is another day” che rappresenta gli Stati Uniti alla Biennale nasce in un momento di grande incertezza con l’ascesa di Trump alla Casa Bianca. Una installazione di legno e cartapesta dipinta incombe all’ingresso, sembra precipitare e costringe i visitatori ad appiattirsi lungo il muro per non essere travolti; l’inferno continua nella seconda stanza con l’effetto della volta che rovina, poi si apre la strada alla speranza con i due dipinti che rinnovano la tradizione della pittura materica ed astratta e inneggiano alla frase cult di Rossella O’Hara “domani è un altro giorno”. Chiude il video di un ragazzo afro e gay che cammina in una periferia ostile e desolata, affrontandola a testa alta.
E c’è un curioso comune sentire con la Russia ed il Theatrum Orbis del collettivo Grisha Bruskin, Recycle Goup e Sasha Pirogova. Teatrale nel concetto e nella forma, si articola sui due piani del padiglione ed all’esterno con un’opera sonora che risuona sulla facciata. Ispirata al nono girone dell’Inferno dantesco include oltre duecento sculture in gesso e cartapesta. Il bianco che spicca nel buio profondo delle sale, figure moltiplicate e anonime sotto il fuoco di una guerra non voluta, in marcia o in fuga mentre il cielo brulica di aerei e razzi.
“La Biennale è un atto politico, non artistico” è il credo di Sisley Xhafa che rappresenta, non più clandestino come dieci anni fa, il Kosovo. Emigrato per necessità a New York e apolide per virtù, si fa portavoce dei Paesi in via di sviluppo “che hanno molto da raccontare”. Il progetto “Last and foud” rintraccia la storia recente di luoghi vittime di guerre civili, regimi dittatoriali, pulizie etniche, privazioni fisiche ed intellettuali di ogni livello. Sullo stesso ragionamento si muove il Padiglione della Bosnia ed Herzegovina a Palazzo Malipiero con l’University of Disaster di Radenko Milak in collaborazione con Roman Yggdre, che tocca la sfera anche del disastro ambientale. Su cui ironizza, al contrario, il Giappone (torniamo nei Giardini) che, pur ricordando Hiroshima e Fukushima, mette in evidenza, attraverso le opere di Takahiro Ivasaki, le contraddizione di una nazione in bilico tra passato e modernità. Per chi entra nel padiglione c’è una interazione giocosa che non sveliamo per non rovinare la sorpresa. E sbeffeggia la voglia di modernità ed occidentalizzazione anche la Repubblica di Korea con il suo lunapark pop coniato da Cody Choi e Lee Wan.
Emoziona l’intervento destabilizzante del canadese Geoffrey Farmer che nel suo “A way out of the mirror” intreccia vissuto personale con la storia. L’incipit è la foto della collisione tra un treno e un carro di legname fermo, in cui fu coinvolto, era il 1955, il nonno che morì pochi mesi dopo. Questo trauma è stata la scintilla, “il motore che accende un’opera”, nata anche per modificare lo spazio difficile del Padiglione del Canada aprendolo di più ai visitatori. Dare un’esistenza fisica ad un ambiente è la mission di Gal Weinstein con il suo lavoro site specific all’interno del Padiglione di Israele. Per lui l’arte deve acuire la consapevolezza del fruitore e nell’installazione “Sun Stand Still” che vede l’utilizzo di materiale fuori dal comune come muffe e lana d’acciaio pone l’accento, ma senza il retrogusto amaro della nostalgia, sulla necessità della memoria e l’impossibilità di fermare il tempo. Pensata per la Biennale è l’installazione immersiva tra musica e arti visive della Francia che presenta “Studio Venezia” di Xavier Veilhan: uno studio di registrazione degli anni Settanta, uno spazio musicale in evoluzione che terminerà con la chiusura della manifestazione. L’artista di Lione, atelier a Parigi, ha invitato musicisti del rango di Chassol per corsi di improvvisazione e corsi di armonia. E si respira il ritmo anche nel Padiglione della Turchia con l’opera percettiva di Cevdet Erek, attivo nel campo delle arti visive e musicista. Occhieggia al fantasy Phyllida Barlow, 77 anni, famosa solo dal 2010, protagonista del Padiglione della Gran Bretagna, “oltre qualsiasi possibile sogno”, con i suoi monumentali assemblages di materiali poveri: cartone, stoffa, legno, polistirene, cemento, dipinti a colori vivaci. Sculture pazze e follemente ambiziose. Tremate, tremate, le streghe son tornate in Irlanda, complice Jesse Jones che trasforma il padiglione in un tribunale alternativo dove proclama la nuova legge dell’Utera Gigantae per rivendicare il diritto all’aborto in uno stato ossequioso alla Chiesa. Delude il gruppo scultoreo “Il problema del Caballo” di Claudia Fontes che ingombra il Padiglione dell’Argentina: conta più il concetto sui conflitti della società attuale che il lavoro in sé, sbagliato nelle proporzioni e banale. Al contrario, fa riflettere il “Laboratory of Dilemmas” sui migranti di George Drivas, ispirato alle Supplici di Eschilo e sospeso tra un senso di empatia verso gli stranieri e la necessità di salvaguardare la sicurezza della propria comunità. Il Padiglione greco, strutturato a labirinto, ospita la sua video installazione realizzata con la tecnica del found footage e volti noti di attori come Charlotte Rampling. Come esempio del dilemma Drivas rispolvera un documentario mai terminato su un esperimento scientifico di anni fa sulle ansie e le paure di portare avanti la ricerca.
Ottantasette i Paesi ospiti e la voglia di abbracciare con l’arte l’intero globo. Tra le new entry si segnala la Nigeria (Scaletta del Tiraoro e Battioro, San Stae, Santa Croce) che offre uno spaccato della sua produzione culturale con tre artisti. L’installazione di Victor Ehikhamenor avvolge tutta la stanza con l’enorme tela con disegni tradizionali su cui sono fissati piccoli specchi colorati, quelli che i bianchi barattavano con l’artigianato artistico africano, materie prime e schiavi; appese al soffitto statuine in bronzo per ricordare quelle razziate dai coloni. Il girotondo di bambine con ali d’angelo, circondate da rondini e farfalle, di Paju Alatise, è una poetica restituzione del diritto all’infanzia in un paese in cui non sempre è scontato. Riflette sul presente, infine, Qudus Onikeku con la serie di video che esplorano le relazioni tra la dimensione estetica e la politica.