Una biografia inedita
Lacan, l’ariete
Catherine Millot, l'ultima compagna di Lacan, racconta il lato privato dello psicoanalista: timido ma donnaiolo impenitente, innamorato di Roma, del suo carisma e della "superiorità" del maschio
Non credeva ovviamente all’astrologia, ma gli piaceva essere chiamato “l’ariete”, suo segno zodiacale. E come un ariete enormemente testardo non rispettava i limiti della vita reale. In autostrada correva a 200 all’ora, invadeva la corsia di emergenza. Un giorno fu portato in commissariato. Impaurito? No, sostenne che prima o poi bisogna sbattere con il “reale” e in quei momenti la polizia era il reale. Con vari stratagemmi si faceva aprire musei in giorni di chiusura o a tarda sera, riuscì persino a entrare in un convento di monache di clausura. Teatrale nei suoi seminari, in privato era mite, silenzioso, assorto. Ecco il ritratto, sconosciuto ai più, di Jacques Lacan (1901-1981), senza dubbio lo psichiatra-psicoanalista-filosofo più noto del secolo scorso. A raccontare, e bene, questo eccentrico personaggio è la sua compagna Catherine Millot in Vita con Lacan (Raffaello Cortina, pag., 97, 12 euro). L’autrice gli è stata vicina nell’ultimo decennio come amante, compagna e collega. Millot scrive senza censurare (anzi!) il suo amore per Jacques, lo studioso sicuramente più eversivo dopo Freud (così come sottolinea Massimo Recalcati nella prefazione).
Lacan viveva a tempo pieno tra pazienti, libri e stesura dei suoi scritti. Un particolare: spesso buttava via la prima e la seconda stesura di un saggio, col risultato che la terza risultava meno comprensibile al largo pubblico. Viveva come uno studente ricco o come uno scapolo: mangiava sempre fuori, rifiutava perentoriamente la vita domestica. Non riusciva ad andare all’estero senza essere accompagnato da qualcuno e, se in certe occasioni si sentiva solo mandava accorati messaggi a Catherine o alla sua governante-segretaria. D’estate e nei fine settimana si ritirava nella sua villa di campagna a Guitrancourt, dove era visto come una specie di “lupo bianco”. Riceveva volentieri e disinvoltamente la sua ex moglie, i nipoti, i generi. Era paziente e silenzioso. La famiglia allargata non lo spaventava per niente, a patto di poter leggere e scrivere, “come una pietra, assolutamente immobile”, nel suo disordinatissimo studio. Sia a Parigi sia a Guitrancourt, trasformava il suo letto in una biblioteca orizzontale, leggendo brani ora di un libro ora di un altro.
Era innamorato di Roma, della quale praticamente conosceva tutto. Lo intrigava la Roma cattolica. Un giorno, con tono perentorio (sua caratteristica) si fece dare una scala dal sacrestano per osservare, meglio e a lungo, il piede di una madonna del Caravaggio. Il suo ristorante preferito era il Passetto, vicino a piazza Navona. Scrive la Millot: «C’era lui, Lacan, e c’ero io che lo seguivo, questo non faceva un “noi”. La sua solitudine era radicata e quindi il suo “apartismo” rendevano il “noi” qualcosa di fuori luogo». Camminava veloce e incurvato, e lei, pazientissima e adorante, leggermente dietro. Era gelosa, sapendo dei suoi vari tradimenti che, curiosamene, s’infittivano in luglio. Un giorno le disse chiaramente di considerare le donne una calamità. Altre volte, scoperto come fedifrago, restava muto, con occhi da perdono. «Affermava spesso di essere fedele. Avevo capito ben presto in che senso lo si dovesse intendere: lui stratificava. Non volendo essere in difetto, non lasciava mai una donna, anche se, a volte, faceva in modo che fosse lei a gettare la spugna… mi confidò che aveva sempre preferito le trentenni… citava spesso Stendhal e mi assicurava di provare nei miei confronti dell’amor-diletto». Possedeva una gran capacità di tollerare l’ira femminile, e la sua compagna arrivò a pensare che «la passività, a volte, è segno di virilità».
Durante una cena uscì con questo assioma: «Quando un uomo non è più un uomo, la moglie lo riduce in poltiglia». E aggiunse che questa “facezia” valeva anche se letta al contrario. Come sempre era elegantissimo, con farfalla al collo e sigaro tra le labbra. «Un’eleganza suprema» annota Catherine «per non dire imperiale, un po’ provocatoria, sovversiva». In certi ristoranti, lui insofferente delle attese, lasciava un biglietto con scritto «dottor Lacan». In questo modo i camerieri si affrettavano.
Un po’ istrionico nei suoi seminari, in privato era una persona «di assoluta semplicità». Il suo rovello era il concetto del “reale” che, amava dire, è una cosa simile quando accade che “i piccoli perni non entrano nei piccoli buchi”. Sosteneva di trasmettere non tanto una tecnica, quanto un’etica. Aveva anche un lato comico. Per esempio diceva di avere cinque anni, «l’età dell’intelligenza fulgida dell’infanzia come diceva Freud, età che precede le rimozioni che sempre segnano gli adulti con una certa debolezza mentale. Cinque anni era anche l’età in cui, a suo dire, aveva maledetto Dio». Aveva centinaia di amici, tra cui Balthus (allora era il direttore di Villa Medici di Roma), Umberto Eco e un architetto giapponese, Cheng, cui aveva affidato l’arredamento della sua villa in campagna. Con quest’ultimo osava parlare in nipponico, avendo studiato durante la guerra alla Scuola di lingue orientali.
Una sera, assieme a Catherine, entrò in un ristorante nei pressi del Vaticano. A fare le cameriere erano giovani donne ornate di abiti orientali non così troppo castigati. Si respirava un’aria vagamente erotica. Scoprì poi che quelle giovani donne appartenevano a un ordine cattolico e avevano fatto giuramento di nubilato. A indispettirlo erano le navets, insomma le “croste”, le opere di poco valore. Scrive Catherine che la sua vita era stata divisa in due quando morì sua figlia in un incidente stradale. Quel fatto lo rese più triste, malinconico e con un senso di solitudine molto radicato.
Quando si trovò a Basilea, volle incontrare la famiglia Heidegger e conversare con il filosofo Martin, successivamente considerato un quasi-nazista. Lo trovò disteso su una sdraio. Lacan gli parlò delle sue teorie e l’altro per tutto il tempo rimase zitto e a occhi chiusi. Un’ora e basta: sua moglie pregò Lacan di “non affaticare il marito”. Scrive Catherine: «Riguadagnammo la via di uscita, un po’ più tardi fummo convinti di vedere la coppia pranzare in un ristorante vicino. Chiesi a Lacan se la signora Heidegger fosse stata nazista. “Ovviamente” mi rispose». Erano tempi in cui non si discuteva ancora dei rapporti del filosofo tedesco col nazismo. L’autrice di queste memoires ci fa sapere che Lacan, quando apprese di avere un tumore all’intestino, rifiutò ogni cura. Perché? Questa la sua risposta: «Così, per capriccio».