Visto all'Argentina di Roma
La formica di Zeichen
A un anno dalla scomparsa, Valentino Zeichen è un poeta da leggere e rileggere. Come dimostra l'allestimento di “Apocalisse nell’arte” con Francesco Siciliano, Anna Rita Chierici e Emanuele Marchetti
Allo scadere del secolo, torneranno fiammeggianti i quattro cavalieri dell’Apocalisse per distruggere ogni opera d’arte prodotta negli ultimi cinquant’anni. È questa la profezia attorno alla quale ruota la vicenda di Apocalisse nell’arte, dialogo in forma teatrale del poeta Valentino Zeichen (1938-2016), messo in scena nella Sala Squarzina del Teatro Argentina lo scorso 11 maggio da Anna Rita Chierici, co-ideatrice del progetto insieme a Marta Zeichen. Protagonisti della pièce sono l’Artista (interpretato Francesco Siciliano), megalomane ed egocentrico parvenu la cui fama è frutto più del caso e delle strategie di marketing che non di un valore realmente artistico, e sua Moglie (Chierici stessa), un po’ manager un po’ confidente, ombra saggia e assai venale del marito e sua affiatata partner di transazioni bancarie. Proprio il denaro sarà l’elemento da cui scaturirà la terribile profezia. Il poeta Segno, infatti, alla ricerca di un sostegno economico, si rivolge tramite lettera all’Artista, sperando in un aiuto in nome di un’antica amicizia. L’indifferenza della coppia, sorda alle richieste del povero poeta, porterà quest’ultimo a lanciare il fatale anatema, per interpretare il quale verrà assoldato il critico d’arte Bomber (il giovane Emanuele Marchetti).
Questa la sinossi di un lavoro che, presentato come lettura scenica, già dall’apertura sorprende lo spettatore mostrandosi con le vesti e i movimenti, la costruzione e il respiro tipici invece del teatro, di un teatro di drammaturgia la cui forza sta nell’abilità dei tre attori e nell’originalità del testo. La scena non è infatti quella asettica del tipico reading, ma a tutti gli effetti luogo teatrale, minimale ambiente dove campeggiano una vera opera d’arte (del contemporaneo Innocenzo Odescalchi) e, poiché l’artista è un Artista e, noblesse oblige, un ananas, e dove gli attori non sono semplici lettori, ma coerenti personaggi dentro la propria parte. Alla dimessa e caricaturale, mitomaniacale, interpretazione di Siciliano, mai sopra le righe pur stando sempre fuori dagli schemi, s’affianca quella dolcemente perfida di Chierici, a proprio agio nel dare viva voce e corpo a una donna la cui personalità è un’altalena di snobismo e ipocrita filantropia, finta timidezza e malcelato arrivismo. Così come determinata è l’intenzione di Marchetti nei panni del critico d’arte Bomber, vanesio e supponente intellettuale alla ribalta. E tutti e tre, tra le musiche degli ottoni del Kosmos Trio e le proiezioni del fotografo Dino Ignani, sanno maneggiare la lingua affilata, ironica e politica (nel senso più alto del termine) di Zeichen, il cui ricordo e la cui parola sono i veri protagonisti di una messa in scena che aspetta solo le tavole di un palcoscenico per esprimersi appieno e con le atmosfere che merita, teatro, dal teatro. E perché in fondo è quel che merita proprio Apocalisse nell’arte, testo di estrema attualità, teso com’è tra sarcasmo e saggia irriverenza a certificare le sempre più precarie condizioni dell’arte e della cultura in generale.
E ancora e definitivamente perché permette, a un anno dalla sua scomparsa, di prendere atto della portata della letteratura di Valentino Zeichen, il cui passaggio è stato ora ignorato dalla critica ufficiale e dalle istituzioni, ora ridimensionato all’interno di sbrigative etichette quali “avanguardia” o “neoavanguardia”. E oggi più di ieri il lettore curioso ha la fortuna di poter reperire facilmente nelle librerie tutta la sua opera poetica, grazie alla recentissima ristampa dell’Oscar Mondadori Poesie 1963-2014. Ci si accorgerà subito che quella di Zeichen è una poesia che ha la rara capacità di parlare all’esperto e all’appassionato non meno che al neofita e al disinteressato, al letterato non meno che allo scienziato: al tronfio accademico non meno che al pigro adolescente. Già, perché sta proprio nell’inedito sposalizio tra letteratura e scienza, filosofia e tecnologia, cultura cosiddetta ‘alta’ e quella cosiddetta ‘bassa’, uno dei punti di forza di questa poesia, una poesia che non conosce gerarchie tra le sfere del sapere né nel dizionario e che si nutre con la stessa voracità di elementi apparentemente contrastanti. Come appunto Zeichen stesso.
Un esule estroso. Nato a Fiume nel 1938, costretto dalla guerra a vagare esule per l’Italia, Zeichen arriva definitivamente a Roma nel 1950, dove si alterna tra teatro (studia all’Accademia Scharoff) e altre esperienze artistiche (lavora in gallerie d’arte, realizza collage) fino ad approdare in quella che sarà poi ricordata come “la baracca di Valentino”, una casetta nel cuore del Borghetto Flaminio che nel corso degli anni si trasformerà in luogo d’incontro tra artisti romani e non, e che Zeichen abiterà fino alla morte conducendo una vita semplicissima e, senza perdere una vena simpaticamente mondana ma quasi ascetica. Uno stile di vita, questo, fatto di curiosità e d’incontri, di rinunce e di progetti, che è stata l’unica vera scuola di Zeichen, sempre autodidatta, onnivoro e curioso, ed estraneo allo studio regolare e regolato e alle dinamiche accademiche.
Poesia come chimica. È attingendo, infatti, dalla molteplicità del visibile, con un approccio sempre stupito e però analitico di fronte al grande libro del mondo, che la poesia di Zeichen si è andata formando e strutturando, costantemente alla ricerca di legami e interazioni. Il suo è uno sguardo che, con la rapidità del lampo, va a tessere collegamenti inauditi e inattesi tra parti e corpi del reale, arrivando al poetico in modo sintetico e fulmineo, mentre il lettore resta come stordito dall’intuizione ogni volta ardita ma mai incomprensibile. Ecco che, ad esempio, il camminare di due formiche viene rapportato allo scorrere del tempo, mentre il movimento d’una porta girevole va a richiamare l’incostante ospitalità del cuore del poeta (Il gomitolo del tempo e Mi ripeto… in Metafisica tascabile del 1997); o ancora, le vongole in un piatto di spaghetti si fanno immagine del sesso femminile e il «binario dentato» di una zip non è diverso dal passaggio d’un treno (Spaghetti alle vongole e Cerniera lampo in Museo interiore del 1987), mentre l’atto creativo dell’artista è sempre «un ricorrente duplicato di Big Bang» (La poesia in Pagine di gloria del 1983).
Quella di Zeichen è allora una poesia che sa di chimica: combinando realtà eterogenee come fossero elementi, il poeta ne osserva alla fine del processo la reazione, stupendoci e stupendosi dell’inaspettato composto. Sì, stupendosi anche lui, perché l’atteggiamento di Zeichen tende sempre a essere esterno, come si volesse estraneo alle proprie creazioni, fiero nemico dell’eccesso di sentimentalismo (e del languore) ancora tipico di tanta letteratura italiana.
Contro il dominio della lirica, un nuovo linguaggio. Ed è proprio questo un altro aspetto fondamentale e quasi unico della sua poesia. In un panorama culturale dove a trionfare è generalmente la lirica, con la stragrande maggioranza degli autori tutti impegnati a parlare alla luna, a osservare il lento e melancolico passaggio di rondoni o a contemplare distese di papaveri, eterni fanciullini nostalgici del tempo che fu, con il cuore sempre in mano e la stizza sempre in pugno, chiusi a riccio di fronte a una contemporaneità che ‘ha ucciso la poesia’, Zeichen spicca ribaltando totalmente prospettiva, creando un linguaggio e un metodo del tutto nuovi. Se guarda la luna, lui, pensa alle orbite dei pianeti, se guarda le stelle alla combustione d’idrogeno, dimostrando una conoscenza e una coscienza scientifiche, tecniche, molto rare nella letteratura italiana. Ci sono, al fianco degli amati epigrammatisti latini, Galileo e i poeti barocchi del Seicento, tra i suoi maestri, i matematici e i geografi del passato, gli orologiai e gli scienziati, gli architetti, i tecnici e gli storici, non certo i conosciutissimi ‘grandi letterati’. Il lettore rimarrà allora sorpreso di fronte a testi come Aviazione (in Ricreazione, 1979), Il radar o L’essere e la tecnica (in Gibilterra, diversi da ciò che generalmente si è abituati a pensare parlando di “poesia”.
Poesia come avventura. E sono ben altro anche perché Zeichen, rifiutando quell’atteggiamento di spossata contemplazione, tesse versi che hanno più d’un’affinità con la prosa, giacché ogni libro viene concepito con un impianto narrativo e ogni componimento non è che un tassello d’un racconto più ampio ben ravvisabile.
Ecco allora che il lettore potrà seguire le rocambolesche avventure del poeta alle prese con l’universo femminile, come in un breve romanzo di formazione, nella prima sezione di Ricreazione («La posta in gioco era alta, bionda, / giovinezza desunta dal polso che ostentava / un orologio al quarzo.», scrive in Bar Navona). Oppure i suoi viaggi per musei, appassionato di storia dell’arte, nelle varie Pinacoteche che troviamo in diverse sue opere («Guernica», 1937, di Pablo Picasso o «Annunciazione» di Leonardo Da Vinci sono solo alcuni dei titoli più interessanti, entrambi in Metafisica tascabile).
Ma soprattutto, il suo addentrarsi, il suo passeggiare per Roma, città d’adozione e eterno simbolo di gloria e decadenza, d’esilio e di ritorno, di viaggio e permanenza, di grandezza e meschinità, di misteri e ministeri. Emblematica, in questo senso, è Ogni cosa a ogni cosa ha detto addio, del 2000, la cui trama ha fili che si chiamano Ponte Milvio, Circo Massimo, Il greco di Porta Pia, ma anche Libreria Feltrinelli al Babuino, a sottolineare una Roma vissuta, fatta d’incontri, di luoghi monumentali e di luoghi popolari: «Ettore è l’amico libraio / ma è anche parente / degli acidi spiriti / di Roma.»
E tutto caratterizzato da una massiccia dose d’ironia, a volte disincantata, a volte più aspra, a scongiurare il patetico e l’eccesso di retorica. Un senso dell’umorismo tutto particolare, di un poeta e di un uomo sempre autoironico («Presumibilmente / sembro un poeta di elevata rappresentanza / sebbene la mia insufficienza cardiaca / ha per virtù medica il libro “cuore”.», Il poeta in Area di rigore), la cui scrittura è costantemente in grado di dribblare le nostre aspettative.
Leggere Zeichen vuol dire sorprendersi ogni volta, subendo lo scacco matto anche di pagine d’inattesa commozione come Infanzia («Un anno prima di morire / mia madre mi teneva / ancora per mano; / un tempo identico mancava / alla fine della guerra») e A Evelina, mia madre
…
Dove sarà finito l’ovale
di mia madre
che fu il suo volto e
che il tempo ha reso medaglia?
Perché non mi sfiora più
con le sue labbra,
dove sarà volato quel soffio
che raffreddava la minestrina?
Dove le impronte di quel
lesto e disordinato
sparire delle cose?
In quale prigione di numeri
è rinchiuso il tempo?
Rispondimi! Dolore sapiente,
autorità senza voce.