“N’zuppilu n’zuppilu” di Giuseppe Condorelli
Invocazione in Sicilia
Versi che scavano nella memoria e si inoltrano nei sentimenti attraverso i cortili, le vie del paese, i suoni del dialetto che si impone nel canto come una necessità. Una raccolta che permette di riprendere le tracce di un autore di valore
È un libretto esile N’zuppilu n’zuppilu di Giuseppe Condorelli (Le Farfalle editore), ma assai intenso, con poesie che scavano nella memoria, e si inoltrano nei sentimenti di tanti anni. È il barometro di un sentire che oscilla tra l’amore e l’assenza, tra l’inoltrarsi nelle sofferenze dei lutti familiari e la storia quotidiana della sua terra, la Sicilia, del suo paese, Misterbianco, grosso centro alla periferia di Catania (nella foto, © Roberto Baccelliere). È l’insinuarsi in cortili e vie del paese, ritrovarsi nella sua complessa e viva vita quotidiana, nel sentire la campagna ricca e faticosa, magari attraverso gli occhi dei propri vecchi o solcata con le proprie falcate di maratoneta. Versi che raccolgono emozioni e ansie, slanci vitali e deboli incontri. Ma sempre con uno sguardo largo, che osserva sì il proprio vivere, ma si confronta con i grandi temi esistenziali.
Poesie sviscerate nel profondo anche per il ricorso al dialetto che, per quanto complicato nella sua lettura, dimostra sempre una precisa vitalità, una sicura coerenza con la vita e dà la possibilità di approfondimenti ulteriori, specie se, come nel caso di Condorelli, tiene in serbo un respiro forte, una veduta alle perenni tribolazioni e al sentire individuale e collettivo. Quel dialetto che Condorelli usa correntemente nelle sue relazioni paesane, nei dialoghi che si esprimono senza mediazioni, essendo il segno di una appartenenza, di una identità, che si esprime al di là delle concessioni culturali o del ceto dell’interlocutore, dunque lingua condivisa, viscerale, che sta dentro a chi vive in alcune zone del paese, come la Sicilia, e che diviene pensiero e comunicazione e in questo caso linguaggio necessario da riversare nei versi, quasi come fosse qualcosa che non si può dire in altro modo.
Il titolo del libro, N’zuppilu n’zuppilu, è un’espressione che induce a vari rimandi, come lo zampillio dell’acqua che scorre senza pausa e porta con sé il flusso delle molteplici cose della vita, i tanti momenti attesi e incompiuti, i diversi incontri, i ripensamenti, insomma le numerose fasi del vivere quotidiano, quello scorrere dei fatti che come gocce escono e bagnano il tutto con la loro indeterminata rivelazione. Compresa la dimensione amorosa che è incisiva traccia di un percorso di vita, di cui il poeta non può privarsi, o soffocare, ma solo ri-vivere tra assenze e rimpianti, slanci accennati e intrecci perduti. Quelle parole sbiadite dal tempo che non possono essere cancellate, perché sono il continuo di una invocazione: «E poi ci sono le parole/ strette/ incagliate/ quelle che non si dicono./ Che poi è tardi./ Ma chi è che guarda/ nel buio/ della tua carne/ e scava/ fino al tuo fiato?». Invocazione lacerata, urlata nel deserto di una dimenticanza, nel profondo di una vertigine: «Lasciale chiuse/ nei cassetti/ le mie parole/ se non sono capaci/ di raccontarti più niente./…/Stracciale/ se non leggono/ il tuo sapore./ Se non riescono/ più a dirti/ che/ ancora/ sono/ tuo».
Ecco, l’invocazione pare un connotato di questa poesia, come quella verso la propria terra, dove il poeta stremato è «sperduto/ in mezzo allo scirocco/ in mezzo all’estate./ Il sole a picco/ come il mare./ Come la vita». La terra stretta nei ricordi, quando «D’estate/ a casa mia/ l’odore di anice/ solleticava i muri./ Lo scirocco moriva/ sulla grande tenda/ dove una locusta/ spargeva le sue urla». E invocazione si ricava anche a leggere i versi dedicati alle tante storie familiari dove la gioia dei racconti si intervalla con l’invadenza della morte, anzi dei morti, che non si traducono in assenze, ma in sospirate presenze, però non invadenti, semmai confortanti: «Perché i morti mi guardano/ torvi/ li sento bisbigliare/ in mezzo alle pietre/ e mi parlano/ una nebbia di parole/ che è solo acqua e terra/ dentro la mia testa./ Ogni tanto/ pure li sogno/ e come loro/ anche io sono/ senza scuse/ e non posso/ rispondere/ niente».
Condorelli scrisse un bel libro nel 2008, Criterio del tempo, da allora la sua produzione poetica si è interrotta, forse per via dei diversi sconfinamenti nel campo della critica, della narrativa, del giornalismo, dell’organizzazione di eventi (“Isolapoesia” e altro), per questo pensiamo che questa ripresa meriti la giusta attenzione. Una lunga pausa quella di Condorelli animata anche dal pensiero, dalla necessità, che più che ai versi l’attenzione debba essere rivolta alle persone, nel richiamo che la vita non sta nei libri, o almeno solo nei libri, perché, in una ulteriore ribellistica invocazione, si deve sapere che: «io sono qui/ adesso/ non dovete leggermi/ dovete parlarmi./ Sono fatto/ di carne/ di pensieri/ e di sangue/ E non d’inchiostro». Ma poi i libri in verità sono il pane del poeta siciliano, allora ecco N’zuppilu n’zuppilu una raccolta che permette di riprendere le tracce di un autore di valore, che dimostra ancora una volta che la sua è una voce originale, tanto più che sa esprimersi anche in dialetto. Giuseppe Condorelli è poeta che centellina la parola, sedimenta il verso tra mille strenue angolose partiture. Versi di sicura emozione, di profonda, dura, totale riflessione, di dolorosa visione della vita, seppure mai vi sia la litania del pianto, il suo scrivere è invece pietroso, corporeo, un intarsio ruvido, ma anche sorpreso verso l’incanto del mondo, verso la delicatezza, quantunque disperata, dell’amore, che fugge nel piano inclinato della vita e lascia attoniti e spiazzati, proprio come il volgere insidioso degli anni («Era la noia del tempo/ che mi bussava/ e il rumore del buio./ Questo ci tocca in sorte./ Questo ci tocca di vedere»).
Infine, accenniamo alla scelta un po’ bizzarra di porre, accanto alle poesie in dialetto siciliano, una versione inglese e solo in piccolo a fondo pagina quella in italiano, scelta dubbia, che – tentiamo di dare una spiegazione – forse nasce dal voler sfuggire a quel vivere l’isola come restrizione, come asfittico isolamento, seppure l’autore sia fortemente radicato e affezionato alla propria terra.