Fa male lo sport
Ciao Totti, divo in giallorosso
L’addio del Capitano della Roma, accompagnato all’uscita dalla nuova dirigenza della squadra. Inarrivabile e sublime fino a quando ha resistito, la sua uscita di scena è costellata di errori e sbavature sia da parte sua che da parte della società che non l’ha supportato a dovere. Con lui tramonta l’ultimo grande talento italiano
Se la vita non è un film, il lungo addio di Totti alla Roma sembra davvero una pellicola. Forse perché ne ricorda altre: Totti come Norma Desmond in Viale del tramonto («Questa è la mia vita e lo sarà per sempre… mi vogliono ancora»); Totti come Rhett Butler in Via col vento («Separiamoci con un po’ di dignità»). Clark Gable lo diceva a Rossella O’Hara. Totti lo dice alla Roma.
Un divo non muore mai. Né sul Sunset Boulevard né allo stadio Olimpico. Totti è un divo. Ma questo uscita di scena ha avuto sceneggiatori mediocri. Hanno sbagliato ogni battuta. Autori e interprete. È come se tutti fossero rimasti invischiati nel clima di declino della città. Totti non era più Totti da un po’ di tempo. Forse da quel derby con la Lazio in cui Claudio Ranieri mise fuori lui e De Rossi. Un derby che la Roma stava perdendo con loro due in campo e che poi alla fine vinse, senza di loro. La Lazio ebbe anche un rigore a favore che il portiere della Roma (Julio Sergio) parò. Disse Ranieri a De Rossi: «Se segnavano il rigore, con voi due fuori e il derby perso, uscivo dalla stadio a mezzanotte». Succedeva sette anni fa. È stato un po’ come con gli spot. Brillanti e spassosi agli inizi quando il Capitano, travestito da Babbo Natale, diceva a Ilary: «Nun me diventà ’na befana…»; opachi e affettati oggi con il «Presidente, non c’è campo…».
È dovuto venire un signore dalla Spagna (Monchi, il nuovo direttore sportivo della società romana) per accompagnarlo all’uscita. Glielo avevano fatto capire più di un anno fa, gli americani, i padroni. Non sapevano più che farsene di lui. L’età, i tanti incidenti e i guai muscolari in 25 anni di carriera si sono rivelati all’improvviso pesanti come macigni. E poi gli schemi del toscano di Certaldo, quel fumantino di Spalletti, non lo prendevano in considerazione. Non si può tenere in campo un atleta che non corre più, che non recupera, che non fa pressing; il tocco, il tiro d’accordo ma non bastano più nel calcio frenetico ed esasperato dei nostri giorni. Così è iniziata una progressiva e triste emarginazione. Totti in panchina, Totti che gioca pochi minuti come un rincalzo qualsiasi, Totti che si riscalda a bordo campo ma non entra, Totti contro Spalletti, Spalletti contro Totti, Spalletti contro i giornalisti che vogliono sapere sempre di Totti e ogni tanto l’allenatore sbotta, i tifosi contro Spalletti, i tifosi contro Totti.
C’è molto di Roma e della Roma in tutto questo. Perché qui tutto diventa esagerato e notizia. Spesso falsa, ingigantita, un non-notizia, fake news come si ama dire. Qui il tifo è manicheo, totalizzante, sofferto. Il tifoso romanista ama la sofferenza. Il suo motto è: mai ’na gioia.Tormentato anche questo distacco, nonostante le feste finali. Perché il tifoso che ama Totti, eccome se lo ama, si è anche chiesto, in qualche caso, se l’atteggiamento del Capitano fosse stato quello giusto. Con la squadra ai vertici della serie A, subito dopo la Juve pigliatutto e in competizione con il Napoli delle meraviglie: non accadeva da tempo. Prima la squadra poi il campione hanno detto in molti. Giudicati male dalla maggioranza, criticati alle radio che pure non hanno più il potere di persuasione di un tempo. Questa società non vince nulla da nove anni: né uno scudetto, né una coppa. La stessa Lazio ha messo in bacheca una Coppa Italia quattro anni fa, facendo marameo ai rivali cittadini.
Non alza trofei questa squadra da troppo tempo. Certo non per colpa di Francesco Totti. Inarrivabile e sublime fino a quando ha resistito. Le sue sassate in porta, i suoi assist, le punizioni e i rigori, il “cucchiaio” e il pollice in bocca: con lui tramonta l’ultimo grande talento italiano. Non ne abbiamo altri. Il campione che ha vinto poco, molto poco con i colori che si è cucito addosso per una vita. Per piacere, passione, comodità e affari. Totti è stato re nel suo piccolo impero, simpatico e generoso. È stato a lungo una bandiera da sventolare. Adesso è un drappo un pochino lacerato. Lui poteva gestire meglio questi ultimi anni, la società aveva il dovere di aiutarlo a fare l’ultimo valzer. Non è stato così. Non l’ha supportato, forse, anche il rapporto con la gente, con la città: idolatrato, venerato, mai messo in discussione anche quando c’era da criticarlo. Ha detto De Rossi a proposito del suo rapporto con Totti (un’intervista a Giuseppe De Bellis, direttore di Undici): «Quando dovevo proteggerlo da un avversario, lo proteggevo, quando ci dovevo discutere ci ho discusso, quando qualcosa non mi stava bene gliel’ho fatto notare, quando dovevo mostrargli affetto glielo mostravo, e quando dovevo dire che era un coglione gliel’ho detto. Un lusso che a Roma non si permette nessuno. Perché qui, se dici che Totti ha sbagliato ad allacciarsi le scarpe, è lesa maestà».
Ha avuto anche adulatori nefasti, Totti. Lui, un eroe popolare e amato come pochi, aveva il dovere in certe circostanze di prendere le distanze da certe cose: dal tifo violento, ad esempio, della sua curva. Non lo ha fatto. Come tanti altri, del resto. Ma certe parole e certi gesti dette e fatti da lui avrebbero avuto altro effetto. Non è stato un giocatore qualunque, è stato un simbolo. Anche Del Piero, Maldini, Antognoni, per non parlare di Rivera e Riva se ne sono andati sbattendo la porta di casa, via dalle squadre che li hanno coccolati come grandi del calcio. In Inghilterra le “bandiere” restano sul pennone. Non sempre, ma spesso. Ora l’augurio che gli si può fare è che non si butti via: Emirati, Lega americana o cineserie varie. Queste cose le lasci agli altri. È difficile staccare, nel calcio o in qualsiasi altro mestiere che si fa con piacere (e che ti permette di guadagnare un sacco di soldi). Ma Totti non lo merita.