La voce del poeta: Alessandro Moscè
Le restituzioni della memoria
Nell’ultima raccolta del poeta marchigiano, “Hotel della notte”, un’umanità dolente, spesso ai limiti della marginalità si muove in una trama autobiografica. Tra i personaggi, in un dialogo fondante con vivi e morti, spicca Pierino, un omino felliniano che portava fortuna…
Alessandro Moscè è poeta, saggista e narratore che opera a Fabriano. Ha al suo attivo le raccolte poetiche L’odore dei vicoli (2004) e Stanze all’aperto (2008). Hotel della notte (108 pagine, 10 euro), l’ultima sua silloge, edita da Aragno nel 2013, si configura come un lavoro molto strutturato, dall’intento programmatico ben preciso, che tuttavia riesce a commuovere in virtù di un anelito ai grandi interrogativi dell’esistenza – l’amore, la morte, la malattia – declinati in chiave moderna ma antimodernista, con un recupero di una dizione chiara e lineare che richiama, a tratti, la lezione sabiana (altro nume tutelare è Sereni, la cui alternanza dei registri è evidente in parecchi esiti della raccolta). Nel libro di Moscè, diviso in quattro sezioni, è molto presente l’elemento autobiografico nel quale si muove un’umanità dolente, spesso ai limiti della marginalità. Non è un caso che una delle parti più intense sia quella dedicata al personaggio di Pierino la cui esistenza si è consumata in una casa di riposo: «Pierino spinge nella brezza / la sua felicità / che non diventerà più parola» (Pierino è presente anche nell’ultimo romanzo di Moscè, L’età bianca, in cui viene rievocata la vicenda reale di una rara malattia dalla quale lo scrittore è miracolosamente guarito). Ma su tutto domina un’atmosfera di insoddisfazione, di disinganno legata soprattutto alle figure dei giovani: «Sono arrivati i trent’anni sottratti / all’adolescenza dei reggiseni, / all’età dei campari e delle discoteche».
Può parlarci della sua ultima raccolta Hotel della notte?
È un insieme di voci, di immagini e di restituzioni della memoria, dove continua il dialogo con i vivi e i morti, una parte fondante della mia poetica, una comunione che fa luce specie sugli affetti familiari, sulle figure epiche dei nonni, sull’infanzia e sull’adolescenza negli stessi luoghi degli anni Settanta, che sono però molto cambiati anche come disposizione. Una sezione è dedicata a Pierino, un omino della casa di riposo di Fabriano che sembrava un personaggio felliniano. Si diceva che portasse fortuna e per questo veniva invitato a battesimi e a matrimoni. Parlava con la Madonna. L’hotel della notte è il luogo del convivio dove si ritrovano tutti in una hall affollata.
Lei vive e opera a Fabriano, nelle Marche. Ritiene che vivere nella cosiddetta provincia sia un vantaggio o uno svantaggio per chi si occupa di poesia?
La provincia è penalizzante per uno scrittore, perché l’editoria italiana è milanocentrica e romanocentrica. Ma ciò non significa che nella dimensione della scrittura sia uno svantaggio. Anzi, molto spesso il luogo marginale diventa un centro geografico nella cartografia letteraria. Basti pensare Leopardi e a Verga. Vivo nel luogo dove tutti mi conoscono e che meglio conosco, che spesso ho reso anche fantastico, nei miei versi. Un luogo alienato come ogni altro della nostra splendida Italia.
Qual è, secondo lei, la situazione poetica in Italia?
Mancano i critici che si espongano, che prendano una posizione, che monitorino le nuove leve. Gli spazi dei social media vengono utilizzati poco e male, perché per lo più non consentono una cernita. Dentro Internet finisce di tutto e le spezie hanno lo stesso sapore. Credo che ci sia supponenza tra i giovani, che farebbero meglio a seguire dei maestri ideali, a leggere di più, invece che a mettersi in competizione tra loro. L’editoria è in crisi al punto che la poesia non è più considerata un prodotto di mercato e molte collane hanno chiuso i battenti.
Cosa pensa della diffusione della poesia nel web?
Penso che per lo più vengano pubblicati versi brutti, sfoghi personali che non vanno confusi con la poesia, dove fatica e lavoro determinano un’evoluzione, una nascita e una crescita del poeta. Nel web si diffonde del poeticismo che non fa bene alla salute di un genere letterario la cui salvaguardia passa per la distinzione tra ciò che è poesia e ciò che non lo è. Nel 2017 sembra di essere ai primordi, eppure la realtà è questa, con molta confusione e sempre meno selezione.
Quali sono gli autori che maggiormente hanno contribuito alla sua formazione?
Li cito in una rapida carrellata, sapendo che ognuno di essi rappresenta un patrimonio unico e irripetibile. Dante, Leopardi, Baudelaire, Saba, Montale, Sereni, Caproni, Gatto, Luzi, Raboni. Ho appena letto l’americano Charles Wright e mi ha colpito la sua capacità fotografica di cogliere la forma delle cose, i particolari degli oggetti e della natura. Potrei citare molti altri poeti, tra i classici e i contemporanei. Il mio orecchio è allenato al canto, alla lirica, alla melodia, non a una visione sperimentale e dunque linguistica. La poesia è esperienza e testimonianza, nient’altro.
Può parlarci del suo lavoro di narratore?
La narrativa mi permette una diluzione dei personaggi, una caratterizzazione pianificata nel tempo e nello spazio. Mi piace raccontare storie, a partire dalla mia. A tredici anni sono stato colpito da un sarcoma di Ewing al bacino. All’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna, dove mi hanno curato per due anni, sono morti tutti coloro che soffrivano del mio stesso male. Io, inaspettatamente, ce l’ho fatta. Si sono registrati due soli casi di guarigione clinica, fino agli anni Novanta. Uno dei due guariti è Alessandro Moscè. Mi sono posto molte domande da trent’anni a questa parte. Posso dire che non è rimasto un buco nero, ma una sola certezza: la malattia non si fronteggia con la sola speranza di guarire. Né con la commozione, che è un sentimento di tenerezza per se stessi. Meno che mai con la disperazione o la rabbia. La malattia va semplicemente ignorata. È un compito improbo, tanto è vero che può riuscirci solo un bambino, un adolescente, nella sua incoscienza. Potevo cercare la consolazione della famiglia, dei genitori, dei nonni. L’ho fatto. Ma nei momenti in cui la consapevolezza di poter morire prendeva il sopravvento, la mia reazione salvifica contro il “vuoto pneumatico” consisteva nel pensiero felicemente ossessivo di un simbolo di forza. Mi ha aiutato molto la figura del mio idolo calcistico di allora, lo stravagante Giorgio Chinaglia. Un famoso giocatore di calcio è diventato il viatico per far fronte ai luoghi di reclusione e di separatezza dalla vita, gli ospedali. Il campione come simbolo di vittoria, uno spazio di leggerezza come naturale antitesi alla malattia, così da annientare il terribile horror vacui. Giorgio Chinaglia, mito incontrastato della Lazio degli anni Settanta, era già un “compagno insostituibile” di giochi nell’infanzia, incarnato come soggetto di fedeltà al quale appellarsi nella solitudine. La compartecipazione con le vicende sportive prende origine da una risonanza puramente emotiva e da un meccanismo di immedesimazione con il campione preferito. Il mito calcistico (il “basso epico”, per dirla con Jorge Luis Borges) garantiva quella “felicità bambina” che è diventata anche il modo migliore per affrontare psicologicamente il sarcoma. Questo è il senso dei due romanzi che ho scritto: Il talento della malattia nel 2012 e L’età bianca nel 2016 (vedi https://www.succedeoggi.it/wordpress2016/11/la-forza-di-long-john/). In quest’ultimo lavoro, che è il proseguo dell’altro, subentra anche la seduzione della donna, l’amore.
Cosa sta preparando attualmente?
Ho appena finito di scrivere una nuova raccolta poetica dal titolo L’amore aiuta a vivere, che è un verso di Mario Luzi contenuto in Primizie del deserto, opera del 1952. Il mio prossimo romanzo sarà una biografia romanzata degli ultimi anni di vita della celebre attrice Anita Ekberg, che finì dimenticata da tutti in una casa di riposo per lungodegenti a Rocca di Papa.
Può commentare la poesia inedita presentata?
Da bambino, nella grande casa dei nonni ubicata a due passi dal porto di Ancona, c’era un acquerello che rappresentava il viaggio. Ancona è la porta d’Oriente, un gomito che si allarga per accogliere. Ho pensato che il guardiano del faro fosse sempre solo, triste. Un giorno scomparve. Era una mia fantasia, ovviamente. Quelle partenze delle navi dal porto, forse, rappresentavano la metafora di una fine, di una scomparsa, del viaggio verso l’aldilà, che mi incuteva timore. È una poesia senza titolo, dove le onde del mare lasciavano intravedere un’acqua melmosa e sporca che mi è rimasta impresso nella mente.
***
Il dipinto del porto di Ancona
nella sala da pranzo
era il mezzo per il grande viaggio
dal porto adriatico all’oriente,
un faccia a faccia
con la scia delle navi sul lato sinistro
che squarciavano la luce,
la ferita di una partenza
per il ritorno impossibile
sulla sommità del faro
senza più il suo guardiano
a controllare la navigazione costiera
Alessandro Moscè