Al Teatro Elicantropo di Napoli
Un’altra Elettra
Nicola Russo, con Sara Borsarelli, racconta in scena la vita avventurosa di Elettra Romani, attrice anarchica, ballerina sfacciata e moglie di un grande comico d'avanspettacolo, Alfonso Tomas
Fino a domenica, al Teatro Elicantropo di Napoli, è in scena Elettra, biografia di una persona comune di Nicola Russo che lo dirige e lo interpreta insieme a Sara Borsarelli. L’Elettra del titolo (una nemesi, più che un nome) è Elettra Romani, attrice anarchica e diva d’avanspettacolo, moglie di uno dei massimi comici teatrali del secolo passato, Alfonso Tomas. Proletaria insofferente e libertaria, Elettra Romani, oggi novantenne, ha vissuto una vita – come dire? – intensa. Fatta di privazioni, di accelerazioni, illusioni e delusioni, sogni da diva e realtà da ballerina di fila. Ha vissuto sulla propria pelle, insomma, quella particolare presa di coscienza di sé che il proletariato italiano ha visto rappresentata nell’avanspettacolo, sovente senza rendersene conto. E proprio questa parabola di “italiana comune” (come già specificato nel titolo) Nicola Russo ha voluto mettere in scena. Senza indulgere nella nostalgia (non è più tempo di recupero dell’avanspettacolo) e senza lasciare spazio all’aneddotica del vecchio teatro comico popolare: anche perché il “vecchio teatro comico popolare” non lo conosce più nessuno né c’è più chi se ne interessi come genere teatrale rivoluzionario (l’unico) italiano nella prima metà del secolo passato.
E, dunque, quello di Nicola Russo è uno spettacolo su un’Italia difficile, un paese dove era altissimo il prezzo della libertà. E dove vivere in modo anticonvenzionale – come ha fatto Elettra Romani – era quasi impossibile. Salvo avere un determinazione terribile e uno stomaco notevole. Qualità (raccontate per bene, qui) che Elettra Romani, evidentemente, poteva vantare. Sennonché non è uno spettacolo sulla comicità popolare – giustamente – ma uno spettacolo su quell’Italia che, pur essendo perfettamente interpretata da quei comici e da quelle ballerine, affidava al suo potere bacchettone il potere assurdo di non tollerare d’essere messa in scena in modo autentico e veritiero. Insomma: non è uno spettacolo per nostalgici di teatro, ma per spettatori devoti alla storia; a quella storia che sovente viene cancellata dai manuali. Ma, come tale, questa rappresentazione avvince e coinvolge: lo spettatore si trova come di fronte a una leggenda che si materializza piano piano, con partecipazione (bravi lo stesso autore e Sara Borsarelli nel tenere il ritmo della narrazione e dare fisicità a un racconto difficile) e fantasia. Al punto che appare del tutto naturale, alla fine, vedere Elettra Romani, la vera Elettra Romani, alzarsi dalla prima fila della platea e prendersi la propria quota di applausi: è la sua vita a parlare, non la sua arte.
Ho conosciuto Alfonso Tomas e Elettra Romani trent’anni fa, quando cominciai a studiare in modo sistematico la comicità popolare italiana. L’avevo scoperto fra le rovine del Teatro Ambra Jovinelli dove allora (1985) volteggiavano vecchie foto dei divi che erano stati e che orami scoloravano dal bianco e nero a un grigio pastoso ma indistinto. Feci in tempo a godere la insolente dedizione di Elettra Romani per il genio del marito, un vero e proprio talento unico. Molti anni dopo, s’era già dopo il Duemila, riuscii a impressionare su un nastro televisivo della Rai la grandezza comica di Tomas, le sue pause metaforiche e la devozione chiassosa della moglie: fra i grandi comici italiani, Alfonso Tomas è stato il più inglese di tutti, più di Aldo Tarantino, più di Raimondo Vianello che vengono ricordati come i più freddi, i più distaccati fra i comici popolari del Novecento. Mi ha fatto piacere, vedendo questo spettacolo, ritrovare quella distaccata partecipazione a un dramma comune che tanti anni prima avevo scoperto in una coppia di grandissimi, dimenticati dal mercato, ma ben saldi sulla propria vocazione solitaria.