Catalogo del Novecento
La sfida di Dostoevskij
Alle origini del Novecento c'è un grande del secolo precedente. Fedor Dostoevskij, con il suo mondo popolato di uomini che ostinatamente s'interrogano sul senso della vita, è lo scrittore che ha aperto la strada alla modernità
«Tutti gli eroi di Dostoevskij interrogano se stessi sul senso della vita, ed è sotto questo aspetto che sono moderni: essi non temono il ridicolo. Ciò che distingue la sensibilità moderna dalla classica è il nutrirsi questa di problemi morali e quella di problemi metafisici. Nei romanzi di Dostoevskij, il problema è posto con tale intensità, da non poter impegnare che a soluzioni estreme. O l’esistenza è menzognera o è eterna», scrive Albert Camus nel bellissimo saggio Il mito di Sisifo. In accordo con la sua tesi, tratteremo forse il più moderno, quasi novecentesco, per tematiche e stile, tra i romanzi di Dostoevskij: Memorie dal sottosuolo.
È un romanzo filosofico, si colloca nel limite esatto tra narrazione e dissertazione. Affronta in primo luogo il tema della solitudine, dell’abiezione, dell’essere diversi, dell’andare contro le leggi di natura. Ora, questi potrebbero apparire argomenti distanti e tra loro differenti, ma in verità non lo sono, in verità sono legati dalla voce in sottofondo, una voce profonda e lunga secoli: quella della volontà. La volontà di vivere di schopenhaueriana memoria, la volontà di potenza nietzscheiana, la volontà del singolo contro il sistema (Kiertkegaard contro Hegel). Dal punto di vista filosofico qui la volontà del singolo si scontra con le leggi della natura, la volontà anche masochista e crudele di errare, di deviare dal sistema, si scontra con il positivismo imperante in quegli anni (metà dell’Ottocento). Ma dentro questo sconfinato motivo filosofico c’è una storia, una narrazione, un personaggio che parla, monologa, e, attenzione, si tratta di monologo non di flusso di coscienza, ovvero una prima persona riflessiva ma in cui la selezione dei pensieri è strumentale alla storia che viene narrata non c’è, come invece avviene nel flusso di coscienza alla Joyce, una sovrapposizione di pensieri, con frasi tronche e ideazioni interrotte da altro ancora (che è poi il tentativo davvero affascinante di rendere conto per intero della complessità della psiche umana nell’istante in cui pensa). No, qui c’è un monologo, tra confessione diaristica e filosofia. La prima parte, quella delle Memorie è soprattutto un pensiero con una epocale presentazione del protagonista-narratore, direi la più potente e memorabile presentazione del personaggio che vi sia in letteratura.
Io sono un uomo malato… astioso. Sono un uomo malvagio. Credo di essere malato di fegato. Del resto non ne so un accidente della mia malattia e non so neppure esattamente cosa mi faccia male. Non mi curo e non mi sono mai curato sebbene abbia rispetto per la medicina e per i medici. Inoltre sono anche estremamente superstizioso: insomma quanto basta per tenere in considerazione la medicina. (Sono abbastanza colto per non essere superstizioso, ma sono superstizioso.) No no, io non voglio curarmi per rabbia. Questo voi, certamente, non lo capirete. Be’, io invece lo capisco. Naturalmente non sono in grado di spiegarvi a chi precisamente la farò pagare, in questo caso, la mia rabbia; so perfettamente che neanche ai medici potrò recar danno se non mi curo di loro; so meglio di chiunque che in questo modo danneggio unicamente me stesso e nessun altro; eppure, se io non mi curo, è solo per rabbia. Ho mal di fegato? Tanto meglio, mi faccia ancora più male!
È un pezzo che vivo così: saranno vent’anni. Ora ne ho quaranta. Prima ero impiegato. Ero sgarbato e ci provavo gusto.
(Fedor M. Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, Bur, 2004, pp.19-21)
La seconda parte A proposito della neve fradicia è quella in cui il narratore comincia a raccontare una storia. Non è una storia unica ma ha un unico filo conduttore che va via via crescendo d’intensità: il suo disagio nelle relazioni umane, disagio che si esprime in vario modo, in primo luogo come una forma di superiorità, ma all’interno di questa superiorità si nasconde un senso del tutto opposto, di abiezione, di odio per se stesso, di incomprensione. Una rabbia sconfinata, un desiderio di vendetta per i danni subiti e che porta solo a moltiplicare il conseguente dolore. Ma, attenzione, il fatto di voler arrecare danno a se stesso il narratore lo spiega sin dal principio, è una forma di anarchismo, un dispiegare la propria volontà, sebbene assurda, malata, antieconomica, contro le leggi della natura. Quindi è una sfida, una sfida che l’uomo del sottosuolo rivolge a Dio, alla Natura e all’Uomo. Gli episodi che narra sono avvenuti in passato, un passato di circa vent’anni rispetto al momento in cui racconta dal sottosuolo, e sono precisamente tre.
Nel primo gli accade di entrare in una sala biliardo e essere spostato di peso da un ufficiale che era lì a far baldoria con gli amici. Poco oltre lo incontrerà ancora lungo la Prospettiva Nevskij e ogni volta l’ufficiale lo urterà senza accorgersi della sua presenza. Essere così ignorato è, per il nostro narratore e protagonista, una ferita assai più grave che essere preso a pugni. E qui ritorna il tema della volontà, ma assieme si palesa anche un altro sotto tema: l’autorevolezza, in relazione alla classe sociale. Ora, il nostro protagonista è un impiegato, lavora all’interno del complesso meccanismo burocratico russo, ma è un semplice impiegato. Il fatto di essere urtato proprio da un ufficiale, dunque appartenente a una classe sociale superiore, è per lui un’onta imperdonabile. Per cui chiederà in anticipo il salario, comprerà un nuovo cappotto, si mostrerà in tutto e per tutto alla pari del suo momentaneo nemico, fino al momento in cui sarà pronto, sulla Prospettiva Nevskij, per affrontarlo. E lo farà. Aveva persino pensato di sfidarlo a duello ma trovando poi la cosa del tutto ridicola, decide semplicemente di non scostarsi e urtarlo anche lui. Qui il nostro protagonista vanterà una vittoria. Ma è solo una piccolissima vittoria, un avanzamento, quasi un burlarsi del lettore, perché questa piccola e insignificante vittoria renderà solo più amara e dolorosa la sua tremenda sconfitta. E così parte il secondo episodio (legato poi al terzo). A cosa gli è servita quella piccola e insignificante vittoria? A tornare a trovare i suoi compagni di classe che si riuniscono a casa di Simonov. Ovviamente non è in buoni rapporti con loro, li odia, e loro lo disprezzano, perché sin dai tempi della scuola il nostro protagonista amava dissacrare e scontrarsi con l’idolo della classe, un tal Zverkov.
Monsieur Zverkov era sempre stato anche mio compagno di scuola. Io avevo cominciato a detestarlo decisamente nelle classi superiori. Alle inferiori era soltanto un ragazzo simpatico, vivace, amato da tutti. Io però non lo potevo soffrire anche alle inferiori, proprio perché era simpatico e vivace. Andava sempre male a scuola e man mano che si procedeva, peggiorava sempre. E tuttavia terminò la scuola con successo perché aveva degli appoggi.
…
Poi seppi dei suoi successi di ufficialetto in caserma e nella crapula. Poi giunsero altre voci sulle sue qualità in servizio. Per strada ormai non mi salutava più e io sospettavo che avesse paura di compromettersi con una persona insignificante come me.
(Fedor M. Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, Bur, 2004, pp. 137-139)
Per farla breve, il narratore impone la sua presenza e continua a polemizzare con Zverkov e a farsi detestare terribilmente da tutti fino a che, giunto al parossismo dell’umiliazione dichiara, in preda a una crisi di nervi, di aver solo desiderato diventar loro amico. Siamo in una locanda, un ristorante e si festeggia l’avanzamento di posizione di Zverkov, divenuto appunto ufficiale. Vi dice qualcosa allora lo scontro-vittoria con l’ufficiale precedente? Quello era lo spettro del nemico reale del nostro protagonista, lo spettro di Zverkov.
Cacciato, allontanato e umiliato, non riesce a levarsi di testa l’obiettivo di vendicare l’onta, di riscattare un’intera esistenza di sottosuolo. Li segue in un bordello, in cui si dirigono per concludere i festeggiamenti, qui però li perde di vista e gli viene data in pasto la giovane prostituta Liza. E qui ci avviciniamo al fuoco della narrazione e al climax di questa storia, che sta tutto nello scioglimento del tema, il tema della volontà, il tema filosofico, di fare il male per dimostrare d’esistere, andare contro natura, contro la vita. Qui però scorgeremo nel protagonista un fondo di umanità, di tenerezza, persino di bontà, di cui non l’avremmo creduto capace. E qui si palesa in pieno il classico personaggio dostoevskijano che è buonissimo nella sua cattiveria o cattivissimo nella sua bontà. Parte un dialogo tra i due, in cui lui cerca con tutti gli argomenti possibili di redimere la giovane Liza, che ha cominciato a prostituirsi da appena due settimane.
Mi girai con disgusto. Ora non ero più un freddo raisonneur. Io stesso cominciavo a sentire che mentre parlavo mi scaldavo. Ero già vogliosissimo di esporre le mie quattro idee segrete che hanno preso forma nella mia tana. Qualcosa cominciò a bruciare dentro di me, all’improvviso, era “comparsa” una specie di meta.
(Fedor M. Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, Bur, 2004, p.199)
In tutto questo non la tocca, non la sfiora minimamente. E quando raggiunge il suo obiettivo, quando vede avvenire in lei, nei suoi tratti, nel suo essere, un principio di mutamento, va via lasciandole il suo indirizzo. Dopo alcuni giorni la ragazza si presenta da lui e avviene il peggio. Una vendetta la otterrà ma non su Zverkov, non sul suo vero nemico, quanto su di lei, su un essere più fragile, più in basso nella catena alimentare della società. La umilia, rivelandole di aver voluto solo illuderla e sfogare un po’ di rabbia repressa su qualcuno che gli fosse capitato a tiro. Abusa di lei. E infine, per completare l’umiliazione e il ribrezzo, le lascia dei soldi. Eppure proprio mentre compie simili azioni lui stesso si odia, si disprezza e riesce perfettamente a immedesimarsi nella povera Liza, cui ha spezzato il cuore. Torna quindi nel Sottosuolo, ai giorni presenti, e vi resta, nella sua tana da topo, nel suo altrove, nella sua abiezione, per l’eternità. Ma poi in fondo cos’altro ha fatto se non constatare quelle stesse leggi di natura contro le quali gridava in principio?