Un racconto inedito
La collina di Ismet
«Appena oltrepassarono il cancello del campo, una folla di persone circondava la roulotte bianca dove lui e il padre vivevano e subito fecero largo al bambino, spalancando la porticina verde»
Si asciugò con la mano le goccioline di sudore che gli scendevano sul collo mentre, masticando un rametto raccolto per strada, camminava sul terriccio polveroso di Cupa dei Cani. Si fermò d’improvviso e una volta buttati giù i piccoli sandali che teneva sotto braccio, accovacciandosi, li legò ben stretti ai piedi rossastri per il gran caldo. Se il padre avesse saputo che anche oggi aveva segato scuola, di certo avrebbe passato il pomeriggio a pulire la roulotte in tutti gli angoli, fuori e dentro. Poi, a spazzare l’intero sterrato del campo mentre gli altri bambini, prendendolo in giro, giocavano a rincorrersi tra le altre baracche e casotti. Le ali di un grosso uccello si muovevano tra le foglie e, con una mano che gli faceva ombra sulla fronte, alzò lo sguardo verso gli alti alberi ai lati del sentiero e dai quali un gabbiano uscì subito svolazzando, girandosi con il grosso becco a uncino tra le cave di tufo nella parte opposta a quella di Ismet. Inseguendolo divertito con gli occhi fece caso a un curioso riflesso azzurrino tra l’enorme distesa verde di frasche, come una collinetta. Non doveva essere molto lontano e continuando sempre a camminare con lo sguardo fisso su quel coso, si rivelò davanti una grossa montagna coperta da teli e l’aria aveva lo stesso puzzo che sentiva qualche volta di notte e che ai primi tempi lo svegliava, ma poi ci aveva fatto l’abitudine.
– Qua non mi trova. – disse a voce alta, togliendosi la maglietta. Si arrampicava su, appoggiandosi con le ginocchia e le braccia magre sui bozzoli che spuntavano al di sotto del telone fino a raggiungere un pezzo piano, di pochi metri, e si sdraiò a pancia in su. I lunghi capelli neri caddero all’indietro scoprendogli i grandi occhi nocciola che si muovevano da una parte all’altra seguendo le rotte concentriche di gabbiani e piccioni.
– Ismet! Ismet! – si sentì chiamare da sotto e sporgendosi si trovò faccia a faccia con le tre donne anziane della comunità. Medina, la più grande e cieca da un occhio, lo fissava corrucciata intimandogli di scendere subito da lì. Si strofinava le guance scarne e callose con i palmi, piangeva.
– Torno a casa, giuro! Ma non lo dite a papà… ma perché piangete?
Le altre donne, in silenzio, gli facevano ombra intorno, con le lunghe gonne a campana e gli scialli che cadevano larghi sui fianchi.
– È morto! – esclamò la vecchia lamentandosi, continuando a sfregarsi il viso sempre più con vigore, – tuo padre è morto!
Ismet non diceva una parola, teneva la mano di Medina e si lasciava trascinare sul vialetto in mezzo ai farfugliamenti nervosi delle altre. Senza guardare avanti, fissava la punta della montagna che pian piano spariva tra la vegetazione e le fronde in fiore.
Appena oltrepassarono il cancello del campo, una folla di persone circondava la roulotte bianca dove lui e il padre vivevano e subito fecero largo al bambino, spalancando la porticina verde. Con il corpo robusto, la vecchia Medina bloccò gli altri ragazzini che si scaraventavano all’ingresso, ansiosi di vedere il cadavere disteso sulla brandina.
– Sciò! Via! – fece la donna, buttando calci in aria. Poi, richiuse la porta a chiave.
– Ismet, aiutami a mettere la veste, fammi il piacere. – continuò la vecchia prendendo l’abito nero da una busta di plastica appoggiata sul tavolo accanto al fornellino elettrico. Il bambino sbottonò la camicetta e allungando le maniche la sfilò mostrando le carni molli del seno penzolante sulla pancia. Con la testa un po’ abbassata per la leggera gobba fece segno a Ismet con l’unghia lunga del dito verso il padre.
– Non potrai tenere niente di suo. Quando uno muore non esiste più, e nemmeno tutte le cose che gli appartenevano.
Fissava il volto stanco di quell’uomo, la bocca sottile sempre chiusa anche da vivo. Negli ultimi tempi Il tumore ai polmoni gli aveva mangiato anche le parole. Le infilò il lungo vestito nero merlettato mentre l’odore di nafta si espandeva ovunque. Iniziarono la veglia seduti in ginocchio accanto al corpo e lei, tenendo una mano su quella del bambino e l’altra sul petto della salma, prese a recitare l’Eterno riposo.
Un boato improvviso, come fosse un tuono o uno sparo di fucile, svegliò Ismet che, rannicchiato per terra, lanciò un’occhiata alla vecchia che ancora pregava senza essersi accorta di niente. Muovendo qualche passo verso il finestrino, osservava il cielo sereno e luminoso di stelle.
***
Con due rami grossi allargò i fili spinati che recintavano la terra piena di alberi di ciliegie. Ci passava in mezzo mentre lo stomaco brontolava. Lanciando qualche occhiata intorno, subito cominciò a riempire la maglietta di quei frutti rossi e dolci fino a quando la galoppata di un cane che doveva essere molto grosso, si avvicinava sempre di più e scappò via verso la montagna di mondezza poco distante da lì.
Mangiando e sputando i semi giù da quella altura, gli pareva che la cima fosse diventata più vicina. Alzandosi all’impiedi cominciò ad arrampicarsi ancora più su e, camminando in tondo, si accorse di un ampio buco nel telone da dove usciva della ferraglia colorata. Avvicinandosi cominciò a rovistare con le mani sporche del succo appiccicaticcio delle ciliegie fino a quando la coda grassa di un topo peloso gli solleticò le dita che immediatamente ritrasse. Un pezzo di tetto ondulato, cadendo di sotto, alzò una strana polvere sottile che gli fece per un attimo strizzare gli occhi. I piedi di Ismet scivolavano sulle pareti morbide e per poco non perse l’equilibrio. Con un salto ritornò giù e si avviò verso casa.
– Ci mancavi solo tu. Forza, si è fatto tardi! – disse la vecchia Medina al ragazzino, ancora tutta vestita di nero. Più in là, in un angolo, un altro ragazzino contrattava con l’autista di un furgone parcheggiato fuori del cancello che chiudeva il campo. Mostrava la merce di cianfrusaglie dentro a due bustoni aperti fino a che l’altro buttò tutto nel cofano e ripartì allungandogli dal finestrino pochi euro. Intanto due uomini con la barba lunga buttavano benzina sulla roulotte con tutta la gente intorno ammutolita. Lentamente le fiamme l’avviluppavano, il bianco e il verde della piccola abitazione si coprivano di nero e un odore nauseante di gomma bruciata faceva tossire le persone intorno. Qualcuno si allontanava con passo mesto, le tre donne anziane recitavano preghiere tenendosi per mano, mentre Ismet si strofinava gli occhi irritati per il forte calore del fuoco.
***
Staccata la corrente dei lampioni che illuminavano il campo, Ismet si ricantucciò in un angolino del letto a una piazza e mezza di Medina che già russava da qualche ora. Con una pila giocava a fare le ombre sulla stoffa rigida che ricopriva il trolley della spesa proprio a un passo da lui. La sua mano si mosse d’improvviso gettando luce con la torcia verso il soffitto basso. Un violento boato gli fece fischiare le orecchie che subito coprì dopo aver buttato via la lucetta. Medina si svegliò urlando.
– Madonna santa, il terremoto! – fece la vecchia mettendo i piedi per terra. Ma il pavimento era immobile, quel rumore sordo come l’esplosione di una bomba lanciata da un aereo diventava sempre più forte, il tetto della baracca cominciava a deformarsi e spaccarsi in due. Ismet prese la vecchia per un braccio fuggendo verso la porta che non si apriva. Era come se un grande masso la bloccasse dall’altra parte. Intanto le grida della gente fuori, le richieste di aiuto si mescolavano agli scricchiolii del legno e del ferro. Ismet, colpendo la finestrella buia con un’asta d’acciaio, frantumò il vetro, ma da lì si riversava dentro solo una poltiglia fangosa, puzzolente e lui scavava, scavava tra i sacchetti stracciati e la terra umida, tra i fusti di alberi sradicati e i frutti rossi che gli macchiavano le mani e fuori un bambino piangeva mentre, sempre più vicini, si dispiegavano i fischi delle sirene.