Visto al Teatro Due di Roma
Incerti di coppia
«Maternità inattesa» di Marco Pizzi: un gruppo di giovani attori mette in scena le incertezze (e l'incapacità di crescere) di un gruppo di ventenni. Prove di nuovo teatro
L’esordio di un attore nelle vesti di regista (Valerio Puppo); l’esordio di un insegnante di matematica e fisica in quelle di drammaturgo (Marco Pizzi); un quintetto di giovani attori, di giovanissimi attori i cui nomi non dicono (ancora) niente a nessuno. Per chi al forse di un talento preferisce la certezza di un’esperienza, c’erano tutti gli ingredienti perché Maternità inattesa, in scena nei giorni scorsi al Teatro Due di Roma nell’ambito della rassegna «Lei. Attraversamenti in territori femminili», partorisse un fallimento. Non mancava nemmeno l’odore di già sentito, di sbracato sul convenzionale, considerando una trama che è una linea pericolosamente retta: Anna (Marialucia Bianchi), innamorata semplice e fedele, crede d’essere incinta, il suo fidanzato, Luca, attore megalomane, eterno bambino, (Emanuele Marchetti) è troppo egoista per prendersi le proprie responsabilità. Tra lei e lui, l’altra, Valentina (Anna Manella), attrice viva e gatta morta. Nessun pensiero stupendo, ma una serie di intrecci (inciuci) che apre le ante a far marciare gli scheletri fuori dall’armadio. Perché, chiaramente, Valentina pure ha un fidanzato, Carlo (Giovanni Malafronte), ingenuo sognatore di matrimonio. Alla doppia coppia in via di scoppio, s’aggiunge infine Giorgia (Ludovica Bove), l’amica di tutti, romana verace che fa quasi le veci di un fool shakespeariano: con esilarante spontaneità, terza alla vicenda, sembra gestirne ritmi e movimenti, inchiodando gli (auto)inganni degli altri. Insomma: tipi, più che personaggi, caratteri più che caratteristiche.
Ma basta davvero quel poco che è il tanto del teatro per far capire anche ai più scettici che siamo di fronte a un oggetto prezioso, a uno spettacolo gustoso e ben fatto. Basta cioè che s’abbassino le luci e cominci il buio solito per entrare e già comprendere l’intrigante specifico della pièce, con i quattro protagonisti a muoversi schematici e simbolici, tracciando percorsi e direzioni di contatto e repulsione, attorno a Giorgia che intona Tu’ madre co’ tu’ padre dei Vianella. Il canto di Giorgia/Bove, infatti, preciso d’uno sporco e esilarante romanesco (cifra, questa, che Bove maneggia in modo impeccabile per tutta la durata dello spettacolo), dà il giusto spessore all’ironia e alla profondità di quel testo («la vita è ‘na polemica / l’amore ce fa male / diventa ‘n funerale tutto quello che se fa») che, tanto nella forma quanto nel contenuto, contiene in sé la natura dell’intero spettacolo.
La drammaticità del tema principale (la gravidanza inattesa, con tutti i dubbi e le angosce che essa prefigura e configura) non ci arriva allora addosso con le pesanti ondate del patetico, ma ci cresce dentro e intorno grazie all’altalenante marea del comico – arma mai spuntata contro lo spauracchio del melodrammatico. L’intera vicenda è un saliscendi di serietà e ironia, d’intensa emotività e ficcante leggerezza, perfettamente bilanciati da una regìa in punta di piedi ma rigorosa e ben inscenati da una recitazione che non stona nemmeno quando esagera. È per lo più, infatti, nelle mani degli attori, quest’ambivalenza che è il pregio massimo dello spettacolo. E nella loro interazione, nell’incontro-scontro tra le loro opposte caratterizzazioni, eminentemente sceniche.
All’intimissima, pudica interpretazione di Bianchi, nei panni di Anna, la cui fragilità è sempre sotto pressione, costretta nell’ineffabilità della propria condizione di donna forse (finalmente) incinta, si contrappone la mai scontata esuberanza di Marchetti, nei panni di Luca, attore tutto fumo di gesti e parole senz’arrosto d’empatia, iperteso vanaglorioso e finto anticonformista (cita Schopenhauer, Shakespeare, Goldoni, lui, e si lancia in arditi sillogismi pur di non ammettere le proprie incapacità e le proprie colpe: «Se la madre di Hitler avesse abortito, non ci sarebbe stato l’olocausto!»). Ad affascinare è proprio la convivenza sullo stesso palco di due interpretazioni così agli antipodi: tanta compassione suscita l’emotività mai lacrimosa di Anna/Bianchi, tanto accattivante simpatia comunica l’esagerazione di Luca/Marchetti. E la stessa bipolarità si intravede nell’altra coppia, meno presente sulla scena e orbitale rispetto ai due protagonisti: la velata ma evidente sensualità di Manella nei panni di Valentina viene controbilanciata dall’ingenua purezza di Malafronte/Carlo, dando vita anche qui a un’interazione comica (e però e perciò mai superficiale) di grande efficacia.
Il tutto immerso in un palcoscenico semi-deserto, dove campeggiano esclusivamente l’ossatura di un divano e altri elementi geometrici, d’un bianco che è essenzialità e astrazione, a far risaltare ancora di più la parola degli attori. E proprio grazie a loro, però, quell’asettica geometria acquista materia e sostanza.
Come carica simbolica acquista quell’unico oggetto colorato che levita durante tutto lo spettacolo: un palloncino rosso, a un tempo ventre e leggerezza, il cui destino ci schiaffeggia e ci ricorda che comico e tragico sono sempre figli della stessa madre.