Alle Scuderie del Quirinale di Roma
Il film di Caravaggio
"Salomè con la testa del Battista" di Caravaggio, esposto nella mostra dedicata al Seicento italiano, svela il segreto della grandezza del pittore: un impianto narrativo che è quasi cinematografico
È una mostra di immagini preziose e raffronti folgoranti quella che con cui le Scuderie del Quirinale di Roma sigillano il passaggio di gestione dal Campidoglio ai Beni culturali, portando in scena fino al 30 luglio un ricco campionario di opere del Seicento italiano provenienti dalla quadreria dei reali di Spagna. Da Caravaggio a Bernini: sono i due nomi con cui il titolo riassume questa carrellata di cimeli e grandi firme del nostro paese che per circa tre secoli hanno arricchito la raccolta privata e la dimora della monarchia spagnola: acquisti diretti attraverso qualificati emissari e doni di altri nobili, altri re e altre corti, ambasciatori e postulanti di altri paesi, che testimoniano la indiscussa supremazia di cui godeva all’epoca l’arte italiana e allo stesso tempo il gusto tutto spagnolo con cui si operavano e si dosavano le scelte e gli omaggi destinati alle corone del più grande impero d’Europa.
Quello di Caravaggio guida questa hit parade di maestri per un legittimo arbitrio dei curatori. Nonostante la fama di cui godeva e i tanti successori, che lo hanno preso a modello e ne hanno seguito la scia, Michelangelo Merisi non era la figura più pregiata della raccolta : troppo trasgressiva la sua pittura e la sua biografia per prevalere nelle classifiche di gradimento della corte di Madrid orientata a seguire i dettami allora dominanti del Bellori, una sorta di Bonito Oliva del Seicento, per il quale il vero obiettivo dell’arte era rappresentare la Natura emendandola dai suoi difetti. Non a caso l’unica opera che lo rappresenta in collezione e in questa mostra approda a Madrid senza alcuna solennità come lascito ereditario di un nobile di seconda fila, creando non poche complicazioni ai critici che hanno dovuto ricostruirne la storia e l’esatta datazione.
Uno scarto di valutazione, oggi imperdonabile, che rende però ancora più interessante il confronto con le opere che ne superavano sicuramente il rilievo sulle pareti della quadreria imperiale e ora l’affiancano nelle sale delle Scuderie.
Si tratta di una tela di un paio di metri che raffigura il martirio di San Giovanni. Un tema su cui Caravaggio si è cimentato altre volte. Per esempio, in un quadro oggi conservato a Londra che mantiene più o meno lo stesso impianto: il punto di vista frontale e ravvicinato, lo stesso numero di personaggi però in altre pose. E la grande tela nella cattedrale della Valletta a Malta: che descrive il momento della decollazione nel carcere e chiama in scena come testimoni due reclusi affacciati ad una finestra.
Fermatevi a guardarlo con attenzione. Occasione rara questo capolavoro che arriva in prestito da Madrid: in Italia lo si è ammirato solo un’altra volta, in una mostra a Milano di oltre sessant’anni fa. E tornate a rivederlo dopo aver fissato in memoria altre opere esposte nella stessa sala, gemme dello stesso secolo, il Seicento, che Caravaggio ha inaugurato in modo irripetibile. Un andirivieni di raffronti che a me ha offerto come una rivelazione, una chiave di lettura su cui mai prima m’ero soffermato. Che mai mi era apparsa così evidente e così utile a farmi afferrare la forza anticipatrice di questo pittore, le ragioni per cui a noi spettatori del Novecento Caravaggio appare come un compagno di viaggio e non un visitatore del passato.
No, non è solo quello sfondo cupo di penombra che come in tutte le opere caravaggesche avvolge come fossero figli della notte, una notte del tempo, una notte dell’anima, i personaggi. Un nero che Caravaggio arricchiva di pennellate di verde per rendere più vibrante l’oscurità. Altri grandi pittori, presenti in questa mostra – Guido Reni, De Ribera, Mattia Preti – hanno abitato e popolato di immagini indimenticabili questi interni da effetto-notte. Non è soltanto, l’eccezionale impronta di realismo con cui scolpisce e dà verità alle sue le sue figure, modelli rubati dalla strada, da un’osteria, da un obitorio a volte, e trapiantati come protagonisti sulla tela. E non è neppure la teatralità della composizione, quei gesti che il pittore blocca in una quiete instabile sulla tela , quei corpi che muove come un regista di cui fissa come in un fermo immagine la presenza sul palcoscenico . E come un colpo di teatro appunto offre con mirabolanti giochi di luce che strappano l’applauso e lo stupore del pubblico al sollevarsi o al calar del sipario. Il teatro era esperienza comune, diffusa e imitata nel Seicento. E altri autori dell’epoca si rivelano scenografi e coreografi persino più arditi: straordinario l’impatto, per esempio, di quella vertigine di tensioni sospese contro un livido squarcio di cielo con cui ti aggredisce pochi metri più in là il capolavoro che Guido Reni dedica alla conversione di San Paolo.
Caravaggio va oltre, si regala e ci regala un’intuizione da cinema. Un cerchio magico di quattro personaggi che emergono dal buio, ritagliati da fasci di riflettori: solo di Salomè ci offre più dettagli , della vecchia servente si intravede solo il capo coperto da un drappo bianco e una ragnatela di rughe, del martire solo il capo mozzato reclinato su un vassoio, del giustiziere solo il vago bagliore della spada rinfoderata, un braccio nudo, i muscoli del torso che fremono ancora. Non sembra l’ultimo fotogramma di una ripresa in piano sequenza, che potrebbe concludere o aprire un film sul crudele e fatale capriccio di quella zoccola di Salomè. L’obiettivo ha inquadrato la scena da lontano, poi è entrato in funzione un carrello o uno zoom che ci avvicina a poco a poco alle figure, lasciando che restino lì a riempire lo schermo, isolate a poco a poco da tutto il resto a raccontare e condensare l’intero dramma. Ognuna prigioniera della parte che ha recitato. A invocare un flashback per tornare all’indietro, trasformarsi in racconto. O frantumarsi in diverse sequenze di racconto. Narrato nel realismo spiazzante che Caravaggio ha infuso, stravolgendo ogni vincolo iconografico. Basta lasciarsi trascinare dall’immaginazione per capire quanto rivoluzionario sia questo copione. Altro che versione hollywoodiana della danza dei sette veli: quella Salomè così rigida e legnosa non può che essersi esibita in uno spogliarello impacciato, magari forse reso più sensuale dall’assenza di falsi pudori che l’espressione scolpita su volto e labbra lascia trasparire. E quella mezza faccia increspata di vecchia non ostenta forse una severità impenetrabile e rassegnata da mezzana fedele che ha assecondato la sua padrona in chissà quanti altri sanguinosi colpi di testa? Forse l’unico che sembra pentirsi dell’orrore è quel carnefice che a esecuzione compiuta prima di voltarci le spalle rimira perplesso il capo che ha mozzato, e riflette sull’ingiustizia di cui è stato complice. Il sacro mescolato al profano: un profetico apologo sulla banalità del male. Gli attori presi dalla strada, servi e prostitute da osteria.
Una schiettezza che all’epoca ha fatto scandalo. Molto più innocua e rassicurante quella Salomè dipinta da Fede Galizia, una pittrice milanese, molto portata dalle nobildonne di corte, che ci fissa ammiccante da un altro quadro, più o meno coevo, sulla parete opposta: la regina maliziosa e cattiva che manda a morte il santo che l’ha respinta trasformata in una bambolina dalle gote arrossate, ingoffata in una veste di sbuffi e velluti, che solleva in mano come un ananas, la testa cerea ma ripulita di un San Giovanni quasi sorridente dopo il supplizio.