Ricordo del poeta scomparso
Evtušenko, il burlone
Al di là delle contraddizioni legate alla sua vita e al suo rapporto con l'ortodossia sovietica, Evgenij Evtušenko resta uno dei migliori interpreti dello spirito russo, sospeso tra forma e ironia
Ho incontrato Evgenij Evtušenko nell’estate del 1979, al Festival dei poeti di Castelporziano. Era alto, slanciato, carismatico. Io avevo compiuto da poco diciott’anni, lui ne aveva quasi cinquanta, era già famoso e pubblicato in tutto il mondo e mi sembrò, come altri suoi colleghi della stessa generazione, una personalità all’apice della propria forza espressiva e delle proprie capacità, con un raro senso della misura. Ci fu in quell’occasione un altro poeta della delegazione sovietica – credo fosse Issaev – che, non avendo capito nulla dell’atmosfera generale, si fece fischiare sonoramente per aver tentato di ammannire al rumoroso e indisciplinato pubblico versi tronfi e trionfalistici, inneggianti al partito e alla rivoluzione. In un pezzo scritto successivamente, Evtušenko lodò (o dovette lodare) il collega per la sua indomita forza di volontà, ma intanto davanti alla folla scelse di mostrare un atteggiamento completamente diverso. Perché Evtušenko annusava l’aria e capiva, e quello che vide lo fece optare per un approccio più meditato, diplomatico e conciliante, un “basso profilo” in linea con il modo in cui avrebbe gestito per tutta la vita il rapporto con la politica e la propria carriera di letterato.
In quei giorni Evtušenko partecipò anche, come documentano le sequenze iniziali del film Ostia dei poeti di Andrea Andermann, a una specie di ricognizione poetica all’Idroscalo, nel luogo esatto dove qualche anno prima era stato assassinato Pasolini. I fotogrammi che lo inquadrano, mostrano un uomo profondamente addolorato e partecipe, che intuiva la portata di quell’omicidio; un letterato che non si era limitato a tradurre per la Literaturnaja Gazeta Il pianto della scavatrice, ma aveva amato e capito quel poemetto. Eppure, Pasolini con lui non era stato affatto tenero: un anno prima di morire, aveva scritto una prefazione al volume Le betulle nane, non nascondendo le proprie riserve nei confronti del poeta russo e anzi mettendone in luce con franchezza i limiti, anche se riconoscendo poi – più per una questione di coerenza ideologica che per una vera adesione poetica – le attenuanti degli stessi. Nel suo catalogo, all’apparenza dei semplici appunti, ma quanto meditati!, diceva fra l’altro Pasolini: «Estroversione e captatio benevolentiae. Estroversione e ipocrisia. Estroversione e mimesi. (…) Notare l’uso ottimistico della vitalità. Notare il rovesciamento del sentimento dell’angoscia in un dato positivo. (…) Sostituzione dello scandalo col fenomeno. Del poeta maledetto col figliol prodigo. (…) Il poeta come esempio di come mentire. Esempio di abilità anziché di santità. (…) Il poeta come campione di adattamento. (…) Le cose si sono messe in modo che la Rivoluzione è in mano al Potere. Banale conseguenza: se un poeta vuole essere rivoluzionario deve essere poeta del Potere».
Ed è proprio questa banale conseguenza, la piaga su cui Pasolini mette il dito, ad aver alienato a Evtušenko molte simpatie, a cominciare da quelle di intellettuali più duri e puri (duri nei confronti del potere sovietico, s’intende), come Brodskij o Tarkvoskij, per fare qualche esempio, che lo hanno sempre considerato con disprezzo un esponente dell’opposizione di Sua Maestà, di quell’opposizione che in fondo non rischia nulla, è tollerata dal regime e anzi finisce per fargli gioco, avallarlo, mostrare al mondo che anch’esso può tollerare la contestazione, purché sia seria e ragionevole. (Brodsky si dimise addirittura dalla American Academy of Arts and Letters quando Evtušenko ne divenne membro onorario.) Naturalmente il discorso di Pasolini si riferisce alla poesia del primo Evtušenko; non poteva certo immaginare la poetica successiva, il graduale allontanamento dall’ideologia sovietica e da un certo kitsch espressivo, l’approfondimento di temi più filosofici come quello dell’angoscia russa, della solidarietà, del dolore, dell’intimità – «Ma cos’è poi felicità? / Dolore / che si è stancato» -, la svolta politica, con il sostegno dato prima a Gorbaciov poi a Eltsin (e in questo caso ritirato al momento dell’invasione della Cecenia), la scelta finale di andare a vivere – e morire – in un posto come Tulsa, Oklahoma, che almeno con il primo Evtušenko sembra aver proprio poco a che fare.
Al tempo stesso va detto che a Evtušenko era toccata in sorte una dote rara, quella di saper scorgere, dietro l’apparenza delle cose, la loro essenza. Ricordo a mo’ d’esempio d’essere stato fortemente colpito da una sua poesia dedicata alla mia città, I prezzi di Roma, in cui mi parve che il poeta siberiano fosse stato uno dei pochi a capirla – da estraneo, da straniero –, forse persino meglio di noi che la viviamo o che vi sopravviviamo giorno per giorno. Di Roma fa anzi una metafora (o sineddoche) del mondo intero: «Vidi d’un tratto il suo dramma: per Roma / fino all’ultimo grido soffocato / è fittizio il valore d’ogni cosa. / L’esercizio del circo e la vicenda / di decadenze successive, a Roma / hanno insegnato il modo / di cancellare i prezzi / d’individui e sistemi. / Roma, compiuta l’opera sua bella, /sopra le idee che rizzano la testa, / su chi gonfia sconsideratamente / il proprio costo appende / il cartellino: “Prezzi ribassati!” / Ma, cambiando il valore d’ogni cosa, / mette se stessa in forse, / senza volerlo, Roma, / nel timore di uscire dalla scena, / d’esser svenduta dalla nuova età». Versi che mi parvero, e mi paiono ancora, di una profondità ed esattezza davvero rimarchevoli.
Quello di Evtušenko è l’ennesimo nome che si aggiunge a una lunga lista di poeti e scrittori che ci hanno purtroppo lasciato negli ultimi mesi. E non è un nome “leggero”: parliamo comunque di un poeta e scrittore che ha plasmato per decenni, quale che sia il giudizio critico finale, la letteratura del suo paese, con frequenti e produttive incursioni nelle altre arti – si pensi solo alla collaborazione con Šostakovic – e nelle altre culture, mantenendo sempre una presenza e una voce inconfondibili. Così come inconfondibile era il suo umorismo: e forse non è un caso che si sia accomiatato dal mondo il 1° aprile, come per un’ultima, involontaria burla.