Gli equilibri tra Asia e Usa
The Trump After
Donald Trump sta scardinando, con metodo, tutte le istituzioni americane. Il risultato sarà lo svuotamento del concetto stesso di democrazia. Ma perché tutto questo? Per un cambio di élite o per un errore di "calcolo"?
«Determinismo idiota», è una definizione che riassume bene l’incapacità di leggere le dinamiche e i fatti della politica internazionale. I cambiamenti epocali avvenuti negli ultimi anni – la globalizzazione sfuggita di mano a chi pensava di poterla controllare, i “nuovi” meccanismi dei movimenti religiosi e sociali, i flussi migratori fintamente contrastati, il terrorismo “funzionale” – ormai non vengono più intercettati dalle analisi classiche. Servirebbero nuove tipologie di accademici, meno sedentari e più “brave”. Il risultato è quello di leggere fesserie con firme illustri. Le interpretazioni/critiche su Trump e il “Trumpismo” (copiose e articolate) non sfuggono a queste distorsioni. Ma con un risultato paradossale, perché comunque alla fine il nuovo presidente Usa con la sua carica di sentimenti anti-establishment, di senso comune, ma privo di senso delle istituzioni, lascerà dietro di sé solo macerie. Macerie di cosa? Della vecchia democrazia: un bradipo istituzionale alla luce della velocità impressa dalla “mondializzazione”; delle lente e farraginose liturgie parlamentari, nate in tempi storici diversi, che bene o male hanno preservato la pace per lunghi periodi, in tempi in cui l’orologio correva però meno veloce. Ed è forse questa la vera ragione che ha permesso all’imprenditore anti-sistema di arrivare fin dentro la stanza Ovale. Potrebbe diventare dunque più facile proporre nuovi modelli tipo “fast democracy” dopo il suo passaggio. Dopo la “grande paura”, i “terremoti” diplomatici, magari anche una guerra. Giusto ad un passo dalla follia.
Parlare male di Trump non è sbagliato: è inutile! Sarebbe meglio analizzare storicamente che cosa è successo, perché si è arrivati a Trump. Servirebbe rileggere la storia recente e passata. Sarebbe utile maggiore umiltà nella valutazione politica, meno ideologia e partigianeria. Praticamente, impossibile, in tempi dove la polarizzazione ha preso la mano. “Spontaneismo” è un’altra parola classica del vocabolario polveroso del XIX secolo, che ricorda un signore nato a Treviri, che ha fatto il suo tempo, ma che aveva intuito alcune cose. Secondo questa corrente i segnali che si stia andando in quella direzione ci sarebbero. Anarchia, lo scrive anche un vecchio attrezzo della politica internazionale, come Henry Kissinger. Il terrorismo e l’estremismo… ça va sans dire. Una confusione permanente nelle relazioni internazionali dovuta, da un lato alla debolezza degli attori nazionali, dall’altra dall’eccessiva forza degli interessi economici senza bandiera. Ma queste sono semplici supposizioni, meglio, un modello alternativo di interpretazione della realtà. Vale se aiuta a capire, non necessariamente se è parente con la realtà. La vecchia oligarchia mondialista avrebbe fallito, lasciando il toro libero in cortile. Mancando l’appuntamento elettorale di Novembre, avrebbe perso il controllo di una importante cabina di regia (non l’unica) perché legata alla creazione del consenso.
Ora, seguendo questa “allegoria” potremmo dire che le nuove élite che dovrebbero fare il passo in avanti, avrebbero il compito di acchiappare il toro e riportarlo nella stalla. O quantomeno limitarne i movimenti e i conseguenti danni. Gli errori di chi ha perso sono tanti. Dalla caduta del Muro di Berlino alla conferenza WTO di Marrakesh (1994) dopo il famoso Uruguay round sul GATT (accordo sulle tariffe) tutto sembrava possibile. Poi la macchina della nuova mondializzazione si è inceppata, certe dinamiche non hanno funzionato come previsto. In Asia hanno operato meglio che in Europa, e in parte anche negli Usa hanno creato problemi. Per il palato degli elettori americani è stato sufficiente per ingrossare la bolla Trump. Certi virtuosismi del mercato, previsti, non si sono palesati. Le produzioni a media o bassa tecnologia emigrate verso i paesi emergenti con bassi salari e labor intensive (Asia) non sono state sostituite da quelle ad alto valore tecnologico nei paesi avanzati (è successo nell’eurozona). In più, le nuove tecnologie hanno reso inutile la “mediazione” umana in molti comparti. Ma forse abbiamo semplificato troppo. Servirebbe ritornare allo spirito dell’Atene dei tempi di Pericle, dove il termine “idiotes” qualificava coloro i quali non si interessavano della vita pubblica, per trovare il filo di Arianna che ci aiuti a comprendere.
Intanto, molti hanno prestato soccorso al nuovo presidente Usa, dal blasonato storico inglese Neil Ferguson, ai meno conosciuti Neil Howe e William Strauss, due storici dilettanti che hanno scoperto che negli Usa ci sarebbero cicli storici della durata approssimativa di 80 anni, al termine dei quali avverrebbe una sorta di ricambio delle élite al potere. Basterebbe ricordare la presidenza McKinley, la lotta contro lo strapotere dei partiti e la corruzione per attivare un parallelo. Inquadrare storicamente un change di questa portata è importante, ma non basta. Il cambio alla Casa Bianca da Barack Obama a Donald Trump è una specie di terremoto sistemico. Non previsto, forse prevedibile. Alcuni punti che caratterizzeranno i mesi a venire saranno comunque legati alle “guerre” contro gli apparati dello stato e non, macchine gigantesche con budget enormi, alla pari di veri stati. Basterebbe pensare solo al Pentagono. Una struttura molto potente, ma al tempo stesso un elefante burocratico malato. Ormai scarsamente controllabile; e generatore di logiche, in patria e all’estero, spesso avulse dal cosiddetto interesse nazionale. Una parola dalla declinazione sempre più difficile. E poi altri giganti pieni di soldi, tecnologie, fame di potere come la Cia, l’Fbi e tutte le sigle della galassia “intelligence” e “law enforcement”… ma spesso in guerra tra loro. Basterebbe citare il caso Able Danger come fulgido esempio di “turf war”.
Un’altra idiozia su cui non si è riflettuto abbastanza. Un mining software per filtrare i gigabyte di informazioni i milioni di dati raccolti sul pericolo terrorismo. Qualche mese prima del fatidico 11 settembre 2001, questo programma gestito dalla DIA (Defence intelligence agency) aveva prodotto una lista di nomi alla cui cima c’erano Mohamed Atta e molti dei suoi accoliti, poi immolatisi in quella giornata di follia. Bene, per problemi di “gelosie” tra apparati quella lista non era stata passata all’Fbi. Notizia scandalosa che, a metà degli anni Duemila, aveva alimentato le conspiracy theory piuttosto che una seria riflessione su cosa stava diventando la state machine. Ma questo è solo un esempio che spiega come le istituzioni “democratiche” vadano ripensate. Quando leggiamo, ormai da anni, del processo di degrado dello Stato/Nazione a favore di macro-aggregati geopolitici, sulla spinta dell’economia senza frontiere, non ci rendiamo conto degli effetti che già ora hanno prodotto queste dinamiche. Una sorta di schizofrenia che fa sì che diventi difficile, ad esempio, capire quale sia la politica estera di una nazione in un altro paese, quando istituzioni e interessi economici con gli stessi ”colori” perseguono politiche diverse da quelle dei propri governi. È caso francese in Libia, è il caso Saudita ovunque. Tanto per fare solo un paio di esempi. Se poi scivoliamo nella bassa classifica dei Pil troviamo paesi in cui le istituzioni e apparati fanno capo ad interessi diversi dai propri governi in maniera stabile, per “istituto”. In quei paesi la politica locale serve solo alla raccolta del consenso. Punto.
Donald Trump ha capito la pancia del paese e conosce le dinamiche dell’economia che non si studia nelle Università. Ma non ha la minima idea del contesto istituzionale in cui il voto lo ha calato. L’ultimo scandalo sulle accuse dirette a Barack Obama, che lo avrebbe fatto spiare poco prima della sua vittoria elettorale nella Trump Tower, è quanto meno “imbarazzante”. Un’accusa non sostanziata da alcuna prova, al momento. Un altro colpo alla credibilità delle istituzioni “democratiche”. L’altra faccia della politica “urlata” di Trump, con una comunicazione scandalosamente “inadeguata” e svarioni politici di varia natura – quasi quotidiani – è quella dei dati statistici. L’Homeland security department, per voce del suo segretario John Kelly, ha appena rilasciato un comunicato con i dati sull’immigrazione illegale dal Messico. Da gennaio a febbraio il fenomeno dei clandestini si sarebbe ridotto del 40 per cento. Le stime fornite a Kelly dalla US Costums and Border protection agency avrebbero registrato un sensibile calo in un periodo che “storicamente” registrava un aumento del 10/20 per cento. Alzare i toni, oltre a rovinare i buoni rapporti con Città del Messico, avrebbe dunque avuto un effetto immediato sul fenomeno. Vedremo in futuro a quale prezzo. Sperando che le stime diventino numeri.
Naturalmente la presidenza Trump fornisce quotidianamente spunti d’analisi, una valanga impossibile da valutare nello spazio ridotto di un semplice articolo. Ma il pericolo reale è la perdita di credibilità delle istituzioni democratiche, tout court, della “democrazia”, nell’unico paese dove fino ad ora aveva dato segni, seppur discontinui, di poter funzionare. Se Trump non farà in fretta nel sostituire la vecchia narrativa globalista con una nuova, e non dovesse imparare in fretta come deve “comunicare” un presidente americano, i danni sarebbero incalcolabili. Per tutti. Resta da capire la genesi di questa presidenza, al di là della base elettorale che gli ha fornito i voti. Serve sapere se il sistema abbia permesso l’ingresso di un “demolitore” nelle istituzioni, appunto per ridurle in macerie e proporre un nuovo modello – magari una cosiddetta “democratura” – oppure se la presidenza Trump non sia figlia del “determinismo idiota” ma di un incidente della storia. Un sistema sommerso dalle difficoltà nel gestire realtà globali troppo complesse, che dopo una serie infinita di errori durati più di un ventennio, ne abbia commesso un ultimo fatale.