Lettera da Jakarta
La mossa di Riad
Persa la sfida dei prezzi con Mosca, in crisi con Washington e con Pechino, l'Arabia Saudita guarda al suo passato e cerca di "conquistare" l'Indonesia. Imponendo il wahabismo per spaccare il mondo islamico
Re Salman bin Abdulaziz del regno Saudita ha fatto il suo ingresso ufficiale in Indonesia poche settimane fa. Lo ha fatto tirandosi dietro inevitabilmente la zavorra wahabita, con il suo portato “supremazista”, il concetto di un Islam targato Golfo, che altro non è che il letteralismo dei beduini, ipocrita e violento, scaturito dopo le invasioni mongole col salafismo, “la via dei padri” che ha generato, qualche secolo dopo, anche Wahab. Pure se il ceppo originario, quello Salafita, ha sempre guardato con sospetto alla storia recente di questa ramificazione letteralista: troppo ricca e con troppo potere. Alcuni esperti arabi tendono a separare il pensiero di Wahab (che nei suoi scritti non avrebbe mai evidenziato alcun intento politico) dal wahabismo, ma qua entriamo in un ambito da “iniziati”. Naturalmente il reale saudita è arrivato con un bel po’ di dollari per far digerire il tutto. E l’attivismo di Riad in Indonesia era già stato notato nel 2003 con l’apertura di numerose scuole di “osservanza” e il finanziamento di gruppi islamisti.
Perché questa visita, perché in questo particolare momento? Riad ha perso la partita in Iraq, ha perso il risiko petrolifero, mai il potere dei Saud è stato tanto in bilico. La sua guerra dei prezzi contro la Russia non solo non ha funzionato, ma alla lunga ha danneggiato le casse saudite, sempre più al verde. Rischia di perdere la partita più importante in Medioriente contro il nemico di sempre: l’Iran sciita. Non c’è più la luna di miele con Washington, distrutta durante l’amministrazione Obama. A poco è servito il maxi acquisto di armi – il business del secolo, in fatto di armamenti – negli Usa: sono ormai in troppi a non digerire più le molte ambiguità di Riad. E le potenti lobby del Pentagono e dell’apparato industrial-militare sembrano avere le armi spuntate a Washington. L’indirizzo sembra essere quello di “vendere e basta”, niente più “vaselina” a favore di Riad. A quanto pare, facevano tutti finta di non sapere dei rapporti di alcune fondazioni Wahabite con Stato islamico e Boko Haram. Un vero segreto di Pulcinella, colpevolmente ignorato dai media main stream occidentali, fino a ieri. Ora con la presidenza Trump non sembra ci sia stato il “reverse” tanto sperato. Almeno non è ancora chiaro ciò che succederà nelle alchimie diplomatiche mediorientali di Foggy Bottom, dopo una serie non indifferente di svarioni. In più, la sempre annunciata fine dell’era degli idrocarburi sembra ormai prossima.
Insomma, Riad deve voltarsi verso il passato per trovare ragioni e speranze per un futuro sempre più incerto. Esercitare un ruolo importante nel quadro di equilibri internazionali sempre più tesi, è apparsa dunque come una delle opzioni obbligate. La sfortuna ha voluto che il paese islamico più popoloso al mondo, l’Indonesia, venisse scelta come ultima ciambella di salvataggio per permettere ai sauditi di giocare ancora. In questo caso, come negli altri, si tratterebbe di un gioco nefasto, distruttivo e assolutamente deleterio per i fragili equilibri indonesiani. Il Pancasila, i 5 pilastri della vecchia costituzione Indonesiana nata ai tempi di Sukarno, già in cattive condizioni secondo alcuni, rischierebbe lo sbriciolamento a contatto con l’ideologia wahabita. Le manifestazioni del 4 Novembre e 2 Dicembre 2016, sono state un campanello d’allarme che aveva mandato nel panico il governo di Jakarta. Più di un milione di fedeli messi in campo da numerose organizzazioni musulmane (tra queste il Front Pembela Islam e Hipunam Mahassiswa islami) su cui si erano innestati dei pericolosissimi giochi politici. Ma torneremo in seguito su questo tema che è una chiave importante per spiegare le nuove mosse di Riad in Asia.
Procediamo con ordine. Sono stati solo i numeri, più di 200 milioni di indonesiani sunniti, ad attivare gli appetiti politici di Riad? Naturalmente no. L’Indonesia fa parte del grande gioco, nel Sud Est asiatico, che vede come attori principali Cina e Stati Uniti. È uno scontro sistemico e come tale, verrà giocato senza sconti. Un gioco che potrebbe facilmente trasformarsi in “guerra”. Nel caso di una malaugurata escalation tra Washington e Pechino, uno dei compiti principali della 7ma Flotta Usa (con basi sensibili a Okinawa, Guam e Singapore, senza contare quelle australiane e l’intenzione dichiarata da Londra di rientrare nel gioco) sarebbe quello di strozzare l’economia cinese bloccando il flusso continuo e vitale di approvvigionamenti che passano dallo stretto di Malacca. Un rapido sguardo a una cartina geografica basterebbe per far capire il ruolo che l’Indonesia giocherebbe in questo “scontro”. Lo Stretto di Sonda e di Lombok sono le uniche alternative a Malacca, anche se le acque meno profonde non darebbero agio ai supertanker di navigare liberamente. Questo spiega la pressione continua e nascosta di Pechino nei confronti della Birmania. Sarebbe l’alternativa più rapida e diretta per far passare il tubo dell’ossigeno per l’economia cinese. Ma anche premere su Jakarta per costringerla a veri equilibrismi diplomatici con Washington farebbe parte del gioco.
I sauditi conoscono bene la situazione e il loro volersi metter in gioco proprio lì acquista un significato sinistro. Sinistro per il futuro dell’Indonesia e per il suo sviluppo recente, sorprendente; la sua declinazione di un Islam pieno di metafisica e povero di letteralismo; il ruolo di mediatore tra tante culture con la sua rete di 17mila isole che si estendono per oltre 5mila chilometri da Sumatra a Papua Nuova Guinea, che nel corso dei secoli sono state una rete che catturava il meglio di tante culture ed esperienze tra India e Far East, tra Polinesia e Sud Est asiatico; la sua lingua piena di influssi provenienti da ogni angolo del pianeta; il carattere mite e gioviale della gente; tutto questo potrebbe presto scomparire. Riad potrebbe decidere di giocare un’ultima carta per riuscire a galleggiare in acque ormai troppo agitate e questa carta potrebbe proprio essere quella di diventare “dominus” nel paese del Pancasila. Vediamo i cinque pilastri della Costituzione indonesiana promulgata ai tempi del padre della Patria, Sukarno: un solo Dio; umanesimo, unità (nella diversità); democrazia rappresentativa e giustizia sociale. Qualcuno li ha confusi con una sorta di mantra laico, ma non lo sono in un paese dove è permesso dalla legge sposare fino a 4 mogli e nel cui codice penale esiste il reato di blasfemia, tanto per fare un paio di esempi. E dove l’identità islamica ha sofferto degli stessi problemi di cui hanno sofferto un po’ tutte le religioni durante il secolo trascorso. Essere state messe nell’ombra della storia da altre “chiese” ideologiche e poi dopo la caduta di queste, da interessi “economici” che spingevano verso un modello “unico” di società, da Est a Ovest. Occorre sottolineare però che la Costituzione riconosce ben sei religioni ufficiali: Islam, Induismo, Buddismo, Cattolicesimo, Protestantesimo e Confucianesimo. L’Islam rimpiazzò l’Induismo come religione predominante intorno al 13mo secolo quando prese piede il regno di Majapahit e alcune forme più ortodosse si radicarono, nel tempo, nei porti più frequentati dai mercanti arabi, molti di questi provenienti dallo Yemen. Aceh, a Nord di Sumatra è rimasta un enclave di ortodossia in stile Golfo.
Ora in Indonesia esiste un’area urbana, quella della capitale Jakarta, con una ricca middle class, laica e potente elettoralmente. Il governatore Ahok, uomo del presidente Jokowi, che la rappresenta è dato al 61 per cento per il secondo turno delle elezioni per la carica di governatore (leggi qui per saperne di più) che si terrà nel mese di aprile. Jokowi l’ha rappresentata come governatore e poi come presidente, pur fra non poche difficoltà, incarnando una figura carismatica a metà strada tra Obama e Sukarno. Poi c’è una vasta area rurale e poco sviluppata come l’isola di Sumatra e il Kalimantan, Sulawesi e Papua Nuova Guinea caratterizzata da forti spinte autonomiste. Qui il fattore religioso è più forte e i vantaggi di cui gode la middle class urbana meno evidenti. Sullo sfondo un alto livello di corruzione ed ancora forti disparità sociali nella distribuzione della ricchezza.
Re Salman probabilmente sta giocando le sue carte e non punterà su Jokowi. Ma su di un altro ex presidente come Susilo Bambang Yudhoyono che ha dimostrato essere più sensibile alla “cultura” wahabita. Durante la sua presidenza, i processi per “blasfemia” erano arrivati a 125 con un eclatante 100 per cento di condanne (fonte Human Right Watch). Contro le poche decine del periodo precedente e successivo, con esigue condanne. L’ex presidente ha messo in pista il figlio per la poltrona di governatore, con tutta l’intenzione di scavare il terreno sotto i piedi di Jokowi e del nuovo corso (modernizzazione e lotta alla corruzione, tanto per citare due punti del programma di Joko Widodo). Ma che possibilità ha l’Arabia Saudita di conquistare “heart and mind” degli indonesiani? In apparenza poche, ma in campo ha messo un po’ di soldi. Contratti e prestiti al sistema bancario senza interessi. La riba (interesse) è proibito (haram) nella cultura islamica, anche se fino ad oggi poche banche potrebbero definirsi veramente islamiche, dovendo integrarsi con un sistema che basa la sua ragion d’essere sugli interessi. Il parallelo con ciò che è successo in Italia e in Europa è lampante. Da noi le banche hanno incassato le prebende europee e stretto la borsa verso i correntisti già esangui. In Indonesia, le banche – come la Mandiri – che hanno usufruito dei finanziamenti sauditi, si stanno apprestando a fornire prestiti senza garanzie e interessi a chiunque lo chieda. Una mossa dal valore dirompente che vale più di tanta propaganda. Il sistema bancario occidentale (fatte le debite eccezioni), percepito ormai come un avvoltoio che viola le leggi e lucra sulle sfortune delle fasce più deboli della catena finanziaria, accoppiato a classi dirigenti di serie B e corrotte, produce una condizione che, presto tardi, porterà a una forte instabilità sociale, politica e a vere e proprie rivolte in Occidente. Figuriamoci che genere di appeal possa avere nei paesi a maggioranza musulmana. Tra l’altro il governo Indonesiano ha varato un piano di aiuti per le zone svantaggiate del paese. Un esempio è la “Pariri card” che fornisce assistenza per anziani e disabili, l’altra è la “Bariri” card che concede prestiti senza interessi ai pescatori per acquistare attrezzature da lavoro. Tanto per dare la misura dell’approccio al “sociale”, pur in un paese con tante disparità e corruzione.
Riad ha carte da mettere sul tavolo e sicuramente le giocherà, in cambio pretenderà una presenza pervasiva delle fondazioni Wahabite. Una presenza che a detta degli stessi rappresentanti delle organizzazioni degli ulema (come Nahdlatul Ulama) rischia di sbriciolare gli equilibri di una società “eterogenea”. Un’altra iniziativa che potrebbe accarezzare Riad per esercitare influenza sul Sud Est asiatico è il progetto, da tempo sul tappeto, di una mega-banca islamica, unendo le forze di istituti già presenti in Turchia, Malesia, e Indonesia. Ma sulla strada delle velleità saudite, al di fuori del fatto che la finanza islamica potrebbe portare aria fresca nel settore finanziario e costringere la “rapace” finanza occidentale a rientrare nei ranghi, c’è un dato incontrovertibile: ad oggi il 40 per cento della finanza dettata dalle regole dell’Islam è in mano all’Iran, l’arci-nemico di Riad, che detiene solo il 18 per cento del mercato. E’ dunque difficile prevedere a breve “rivoluzioni” nel settore bancario. Rimane però il fatto che anche progetti intermedi, con aggregazioni limitate di istituti finanziari islamici potrebbero supportare una politica espansiva di Riad fuori dai propri confini, nel disperato tentativo di sopravvivere.
Nella storia recente indonesiana i musulmani sono stati più volte usati, per poi essere ricacciati nell’angolo buio della storia. E’ successo dopo il passaggio di consegne tra Sukarno e Suharto. Tra il 1965-1966 furono usati come ausiliari per de-comunistizzare il paese. Un conto salato in vite umane: centinaia di migliaia di morti. “I fiumi che Dio ci aveva regalato blu, gli uomini fecero diventare rossi di sangue” come ha scritto Leila Chudori nel suo splendido “Pulang” (Ritorno a Casa). Poi, finito lo stato di necessità, furono confinati nell’ombra ancora una volta. Di nuovo Suharto ne sfruttò l’appoggio verso la fine del suo regime, quando i militari cominciavano a rumoreggiare su nepotismo e corruzione. In questo contesto fu abolita la proibizione di indossare l’hijab ai funzionari pubblici e nelle scuole. Poi esiste il “Jakarta charter” ovvero un’aggiunta al primo pilastro del Pancasila che prevedeva l’abiura della sharia per ogni musulmano, frase che fu poi eliminata nella stesura finale della Costituzione del 18 Agosto 1945. Un elemento che sottolinea l’ambiguità o la coerenza – a seconda di come la si pensi – con cui è sempre stata trattata la questione islamica. La fede può essere materia di trattative politiche “nominali”, ma nei cuori dei credenti si mantiene viva più di quanto la leadership di una nazione possa immaginare. O sperare, nel tentativo di assecondare interessi esterni al paese.
Abbiamo fatto pochi esempi dei tanti che la recente storia indonesiana ha registrato, ma servono per dare un’idea di come la politica abbia spesso “giocato” con la religione. Anche le manifestazioni del 4 Novembre e del 2 Dicembre 2016 hanno sicuramente avuto “interferenze” politiche, e vox populi vorrebbe essere proprio Susilo Bambang Yudhoyono il regista occulto di queste interferenze. Ma sarebbe un errore ascrivere ai giochi politici l’impatto e il segnale lanciato da più di un milione di musulmani scesi in piazza, formalmente per chiedere l’arresto di Ahok per “blasfemia”, in realtà per pretendere maggior rispetto verso l’identità musulmana.
C’è da sperare che queste istanze non vengano, ancora una volta sfruttate e incanalate per fini politici, e nel caso specifico verso un Islam “supremazista” che porterebbe l’Indonesia verso un incerto futuro. E che vede nel MUI (Majles Ulama Indonesia) un alleato già avviato su quella via, che mischia istanze comprensibili a vere fatwa radicali, come quelle contro i matrimoni misti o il pluralismo religioso. E che guarda caso è molto vicino a Yudhoyono. Il wahabismo non è solo un pericolo per la stabilità in Indonesia ma è, di fatto, il nemico giurato di ogni tentativo di modernizzazione dell’Islam. Le recenti aperture avvenute nei vari congressi islamici mondiali per tentare di aprire la via al “riformismo”, cioè un Islam contestualizzato, sono costantemente minate proprio dall’ideologia wahabita e dal potere che esercita in Arabia Saudita e nel mondo musulmano. Il congresso islamico di Grozny, lo scorso anno, aveva messo al bando il wahabismo. Quello recente di Rabat aveva portato ad aperture importanti, grazie anche al contributo di organizzazioni islamiche indonesiane. Ora tutto questo movimento potrebbe franare miseramente sotto la spinta di giochi politici. E sarebbe un errore fatale.
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Le fotografie sono di Pierre Chiartano.