La voce del poeta: Marco Vitale
Elegia canaglia
Baudelaire diceva che gli elegiaci sono delle canaglie, ricorda il poeta napoletano autore di una poesia, appunto, “elegiaca”. Ma la sua delicata poetica sta nel solco della vita, coi suoi dolori, le perdite, il senso di precarietà… oltre all’amore
Nato a Napoli ma residente a Milano, Marco Vitale è autore di varie raccolte poetiche, tra le quali segnaliamo Canone semplice (2007) e Come da un lungo sonno (2009). Saggista e traduttore dal francese, Vitale ha pubblicato nel 2016 la silloge Diversorium (100 pagine, 12 euro) per le Edizioni Il Labirinto che si configura come un lavoro molto omogeneo, che risente di svariati echi novecenteschi: si pensi a certo periodare di Sereni, oscillante tra cadenze prosastiche e improvvisi squarci lirici («Umile privilegio è questo bianco / e questo transito / che lega ancora un anno / a un altro anno / un silenzio a un silenzio») o alla delicatezza di Attilio Bertolucci, cui non a caso è ispirata la Variazione su un tema di A.B.: «Le rose che non pensi alla foschia / di via Candiani / ti assomigliano amore».
I versi di Vitale privilegiano l’anacoluto, soffermandosi, come osserva Giancarlo Pontiggia nella nota che figura nel risvolto di copertina, intorno a una «tonalità affettiva, naturaliter elegiaca di ogni verso [che] coinvolge non solo la materia domestica e memoriale (una proustiana “lanterna di figure”) ma anche il mondo della natura: cieli, nubi alte, lumi che s’incastonano nella retina degli occhi, luoghi resi sacri da un transito». E non è un caso che spesso i testi prendano l’abbrivio da topoi prediletti, da un particolare contesto sapienziale (in Didascalia, per esempio, viene isolata una frase riguardante l’arte vascolare greca mentre ne La collina di Fourvière l’occasione è costituita da «una stele col mio nome», Marcus Vitalis, oste «nell’antica Lugdunum / divenuta romana / – ora la limpida / elegante Lione») o da un vissuto stemperato «nel solco della vita».
Giancarlo Pontiggia, nell’introduzione alla sua ultima raccolta Diversorium, sostiene che le sue poesie siano pervase da un «sentimento di ansiosa precarietà». In che senso va letta tale accezione?
L’ansiosa precarietà, che Giancarlo coglie con la sua consueta, straordinaria acutezza di lettore di poesia, è un tratto penso distintivo non solo di questa mia ultima raccolta, ma in diversa misura anche di quelle che l’hanno preceduta. È qualcosa che ha naturalmente a che fare con la catulliana brevis lux, e che con il passare degli anni, altrettanto naturalmente, si accentua. Ugualmente essa ha a che fare con un’idea di realtà che non comprende solo quanto ci capita sotto gli occhi, ma anche quello che è distante da noi, che il tempo ci sottrae con le sue voci che non tornano, eppure tornano, con le sue luci. Questa raccolta, se proprio devo parlarne per cenni autobiografici, nasce da una perdita, e da un colloquio che ormai poteva stabilirsi solo sulla pagina, ma al tempo stesso nasce da un incontro felice: le tonalità della perdita e dell’amore dapprima autonomamente enucleate, tendono a intrecciarsi secondo quelli che sono i ritmi e le giunzioni della vita. Sì, forse a prevalere, come notava sempre Giancarlo, è il tono elegiaco. E me ne dovrei rammaricare: gli elegiaci, diceva Baudelaire, sono delle canaglie.
Può parlarci della sua attività di traduttore?
Traduco dal francese, in prevalenza autori classici: Guilleragues, ammesso che sia stato davvero lui a scrivere le Lettres portugaises che uscirono anonime e con grande scandalo, Aloysius Bertrand, Alfred de Vigny; da ultimo Albert Camus. Autori quanto non si potrebbe dire più diversi e che pertanto, e questo è il bello del mestiere di traduttore, richiedono messe a fuoco differenti, perché è da queste, e dunque dall’interpretazione del testo, che nasce e si può eventualmente discutere la resa stilistica. La traduzione di Gaspard de la Nuit, il testo famoso che segna la nascita di un genere e fornisce a Baudelaire il modello per Lo spleen di Parigi («un libro conosciuto da voi, da me e da qualche nostro amico, non ha forse tutto il diritto di essere definito famoso?») è stata forse quella che ho più amato: la ricerca lessicale a cui mi ha costretto è stata un’autentica gioia. Ma va anche detto che a volte le difficoltà maggiori si incontrano traducendo una scrittura “semplice”: la densa, meravigliosa asciuttezza della prosa di Camus si è rivelata una prova più impegnativa di quanto pensassi.
Lei dirige per Unicopli una collana dedicata alle città.
Curo da ormai sedici anni “Le città letterarie” insieme ad Alberto Giorgio Cassani, architetto e finissimo storico dell’architettura. Abbiamo pensato a una collana “anfibia”, in cui la morfologia urbana venisse letta attraverso le pagine degli scrittori e dei poeti (più facile certo con quelle degli scrittori che dei poeti). Ha cominciato Alberto, con una Barcellona di Manuel Vázquez Montalbán; io l’ho seguito con una Parigi simenoniana, quella delle inchieste del commissario Maigret. Alla vita della collana hanno partecipato, e partecipano tuttora su un piano di parità, architetti e scrittori, e mi piace ricordare, per la parte che curo, la presenza nel catalogo di poeti come Franco Loi, Giovanna Sicari, Alberto Toni, Isabella Vincentini. Da ultimo Anna Maria Farabbi ci ha regalato una bellissima Perugia di Walter Binni e di Aldo Capitini.
Riesce facilmente a coniugare il fatto di scrivere con la sua attività di bibliotecario presso il Politecnico di Milano?
Il Politecnico di Milano, ormai da ventisette anni, alla fine di ogni mese mi corrisponde uno stipendio, e questo credo che abbia una sua incidenza perfino sulla scrittura. Da quattro anni ho lasciato la biblioteca e lavoro nel nuovo archivio storico dell’Ateneo, enorme giacimento di carte (tra cui anche diverse di Gadda, allievo ingegnere) otto-novecentesche. Vi è un lato affascinante in tutto questo anche se, lo dico con franchezza, quelle che lascio sul mio tavolo alle sette di ogni mattina mi interessano molto di più. Il tempo per scrivere – ma questo non è lamento solo mio – e naturalmente per leggere, sembra non basti mai. In realtà se se ne ha troppo il rischio è quello di disperderlo.
A cosa è dovuto il fatto che lei sia vissuto in svariate città?
È dovuto a semplici circostanze della vita: i miei genitori, entrambi di origine meridionale, vinsero un concorso al Nord, poi alla fine degli anni Sessanta, sempre per lavoro, si trasferirono a Roma, dove io ho studiato. Ho vissuto due anni a Parigi facendo il lettore di italiano, quindi è venuto il mio turno di vincere un concorso al Nord (a Roma neanche a pensarci…), così ho fatto il bibliotecario nella splendida Ferrara per pochi mesi, poi, sempre da vincitore di concorso, mi sono trasferito a Milano dove mi spingeva la prospettiva delle collaborazioni editoriali. Ho infatti collaborato come traduttore e lettore con la BUR nel lungo periodo in cui è stata diretta da Evaldo Violo, l’editor che ha ridisegnato la gloriosa collana “grigia” trasformandola nella più ricca e criticamente aggiornata collezione di classici, soprattutto latini e greci. Quest’esperienza mi ha aiutato a conoscere e ad amare una città che all’inizio, a quanto ricordo, non presentava sempre un volto amichevole.
Quali sono i suoi autori di riferimento?
Sono tanti, e vedo che negli anni tendono a mutare posizione. Ma vi sono per così dire delle stelle fisse, che per me rispondono ai nomi di Attilio Bertolucci, di Giorgio Caproni, di Sandro Penna. Meno immediata, ma altrettanto importante, è stata la lettura di Vittorio Sereni, poeta che considero di assoluto rilievo. Ma, ripeto, i nomi che potrei fare sono tanti, e tra questi anche di autori che appartengono alla mia generazione. Non li faccio perché ne dimenticherei certamente qualcuno. Amo, quanto forse si è capito dalle mie risposte fin qui, la poesia francese, dai classici della modernità del XIX secolo ai grandi poeti del Novecento: Apollinaire, Michaux, Pierre Jean Jouve, René Char. E Philippe Jaccottet per traghettare ai nostri giorni. Sempre restando al Novecento un cenno almeno lo vorrei fare alla straordinaria poesia polacca, Herbert in primo luogo, che leggo purtroppo in traduzione (ottime traduzioni, a quanto mi sembra di capire).
Cosa sta preparando attualmente?
Sto lavorando a una raccolta di racconti, e alla traduzione di uno dei miei amori: Jules Laforgue.
Può commentare la poesia inedita presentata?
Commentare un proprio testo è difficile per tanti motivi, e il rischio, mentre si tenta di “spiegare”, è anche quello di assumere un tono di sussiego. Ho scelto allora un inedito che mi sembra “trasparente”, e non necessita secondo me di troppe glosse. Parla di una visita domenicale a un luogo dove persone come noi soffrono, senza saperne neanche il motivo, e senza certezze, o con certezze che delle incertezze sono anche peggiori. Pure in quel luogo di pena mi era sembrato di cogliere un senso di dolente fraternità. Per questo mi sono permesso di rivolgermi a tutte loro, anziché a una sola.
***
Anime, e che cos’altro qui?
Per questo scabro purgatorio
al limitare del silenzio,
di una luce sui colli senza oltraggio
smemorata
Anime tra questi pini
che disegnano
una perduta eleganza
e una stagione del ritorno
non vi inganna
Anime di cunicoli
di braci spente
di ormai scordate
rime in fiore e amore
Marco Vitale