Visto al Gobetti di Torino
Eduardo (senza Gomorra)
“Il Sindaco del rione Sanità" di Eduardo De Filippo riletto da Mario Martone con Francesco Di Leva e Massimiliano Gallo è uno spettacolo perfetto, che aggiorna un classico senza stravolgerlo. Anzi, portando alle estreme conseguenze la denuncia dell'autore
I classici – si sa – sono quei testi che riescono a emozionare al di là della loro stretta contemporaneità. Ossia: sono copioni dove le dinamiche emotive che legano i personaggi risultano preponderanti rispetto alla stessa trama e alle ragioni storiche che sottendono. Nella versione che ne ha dato Mario Martone (ora in scena al Gobetti di Torino, poi in tournée), Il Sindaco del rione Sanità di Eduardo De Filippo diventa un classico clamorosamente vivo. L’atto “rivoluzionario” (apparentemente semplice) compiuto da questo spettacolo è quello di spostare in basso l’età di Antonio Barracano, il “boss” dell’intreccio eduardiano. Eduardo, infatti, quando scrisse questo testo nel 1960 pensava a un vecchio carismatico, con una lunga carriera malavitosa alle spalle, il quale al termine della sua parabola sceglieva di uscire di scena dignitosamente, stanco più dei conflitti degli altri che del proprio potere. Barracano era il prototipo del camorrista (o mafioso che dir si voglia, pensate agli anni in cui venne immaginato) che mescolava senso di protezione al governo (violento) del territorio: quel tipo di boss vecchia maniera che costruivano il proprio potere (con la soperchieria come metodo costante) frapponendosi tra Stato e cittadino. Insomma, leader carismatici che avevano la pretesa di governare il territorio usando un misto di violenza e (presunti) vecchi valori. Pensate a Don Mariano Arena del Giorno della civetta di Sciascia (scritto appena un anno dopo, 1961): un eroe controverso, sanguinario, eppure dotato di una sua (aberrante) morale che perfino il suo nemico istituzionale, il capitano Bellodi, dovrà riconoscere. Così è pure Antonio Barracano: e, dunque, attraverso il suo “pentimento” finale (con una morte posta, lì, a mo’ di espiazione) Eduardo voleva sottolineare la capacità di auto-redimersi del popolo napoletano, ossia il suo orizzonte poetico programmatico di sempre.
Con grande intelligenza, Mario Martone e il protagonista di questo spettacolo Francesco Di Leva abbassano l’età di Barracano non tanto per farne un “giovane boss”, quanto per segnalare – grazie al ravvedimento finale – l’insostenibilità di quell’equilibrio sociale che produce malavita organizzata sotto forma di mediazione violenta tra cittadino e Stato: a fallire non è più il vecchio criminale in doppiopetto, ma un sistema di reciproci favori che unisce lo Stato corrotto e connivente alla camorra. Insomma, il finale già ambiguo di Eduardo qui diventa terribile: una condanna senza appello. E questo senza che il boss, il malavitoso, l’uomo senza scrupoli diventi un mito, come invece ormai è prassi in certe serie televisive.
Perché poi, questo deve essere stato il problema di fronte al quale si sono trovati Mario Martone, Francesco Di Leva e Massimiliano Gallo (che interpreta in modo perfetto la vittima onesta della morale di Barracano): se nel 1960 l’occhio da puntare sull’universo disperato della malavita poteva contenere una venatura comprensiva (era la società a generare miseria e la miseria a generare criminalità), oggi quella benevolenza di fondo è vietata. Occorre separare in modo inequivoco il bene dal male: l’ambiguità ormai va solo a vantaggio della criminalità. Ed ecco spiegato come e perché questo spettacolo “aggiorna” Eduardo rispettandolo: un’operazione critica e interpretativa di tutto rispetto. Che basterebbe a giustificare la riuscita di questo Sindaco del rione Sanità (alla normale replica torinese cui ho assistito il successo è stato molto caloroso), se non fosse che si tratta anche di una rappresentazione dove tutti gli attori sono perfetti nella loro parte, dove le scene minimali (di Carmine Guarino), le luci piene di Cesare Accetta e i costumi “banali” (di Giovanna Napolitano) riproducono alla perfezione il “cattivo gusto” della nuova criminalità, le loro sedie di plexiglass, le loro tovagliette dorate, i loro fuseaux sgradevoli, le loro lampade “calde”. Intendiamoci: si tratta di una bruttezza mimetica, che esprime la bruttezza dell’immaginario di quel mondo. Usando la stessa tecnica (chiamiamola di realismo critico) Martone ha diretto i suoi attori. Ripeto, tutti ottimi interpreti, a cominciare dai due protagonisti (Francesco Di Leva e Massimiliano Gallo il cui duetto nel secondo atto è davvero da manuale eduardiano) come pure gli altri: il rapper Ralph P, Armando De Giulio, Adriano Pantaleo, Viviana Cangiano, Giovanni Ludeno, Mimmo Esposito, la piccola Morena Di Leva, Gennaro Di Colandrea, Giuseppe Gaudino, Salvatore Presutto, Lucienne Perreca, Daniela Iola e Daniele Baselice.
Come dice Martone stesso nelle note che accompagnano lo spettacolo, per lui si tratta di un ritorno alle origini, nel cuore di quella libertà creativa che segnò la ricerca teatrale napoletana alla fine degli anni Settanta. Un ritorno davvero felice: peccato che proprio nel pieno di questa nuova giovinezza creativa Martone abbia deciso di lasciare la direzione artistica del Teatro Stabile di Torino. Speriamo che ciò non significhi un suo volontario allontanamento dal teatro tout court.