Alberto Fraccacreta
L'elzeviro secco

Divinissimo esistere

Metti Raffaello a confronto con l'assenza; metti la finzione al servizio della creazione: quando uno spettacolo teatrale incarna le speranze e le attese di una comunità

Cinguettii di pettirossi, erba folta, chiome di pini svettanti. Due palme sotto i torricini, a conferire un aspetto alquanto esotico alla scena. La fortezza Albornoz, imponente, sulla destra; il colle coperto da brughiera. In alto il sole calante è, a tratti, oscurato da un rapace, – che sia la terribile poiana? Alle spalle la grande stempiatura della Cesana. Il teatro Sanzio di Urbino è costruito sul torrione della rampa elicoidale di Francesco di Giorgio Martini. Rompe la vista naturale del palazzo di Federico, almeno se si procede da Bocca Trabaria. Sempre nello stesso torrione, in uno dei piani inferiori, quasi all’altezza della cinta muraria, c’è la Sala del Maniscalco, luogo adibito alle prove di Divinissimo, la pièce scritta e diretta da Michele Pagliaroni, responsabile artistico del ctu Cesare Questa, che ha messo in trambusto l’intera cittadinanza (urbinati e studenti) per almeno una settimana.

Ho cercato di evitare le prove per mantenere un giudizio che sia il più oggettivo possibile. Ma, alla fine, come spesso capita quando si dànno dei limiti alla coscienza, ho assistito alle generali e il rigore della critica teatrale può cedere, talora, il passo al coinvolgimento emotivo. Io e Michele ci conosciamo dal 2010: cosa facesse prima, non so. Cosa io facessi prima, neanche. Tale è forse il senso di una celebre frase di Borges, che al vero riguarda qualsiasi incontro nella vita: «Ogni persona è unica. Sempre lascia un po’ di sé e si porta un po’ di noi. Questa è la prova evidente che due anime non si incontrano mai per caso». L’obiettività non sarà il mio stimma.

Divinissimo è la storia di un grande assente: Raffaello. A Beckett sarebbe senz’altro piaciuto. Siamo a Roma nel 1518, «l’edera adorna le colonne di marmo e il cuore di tutti i romani batte al ritmo del Tevere maestoso», com’è detto nelle didascalie sceniche. Il soggetto prende le mosse da fantasie legate alla celebre Loggia di Psiche di Villa Farnesina. La cortigiana Francesca Ordeaschi ama Agostino Chigi, il ricchissimo banchiere, che la ricambia e vuole preparare le nozze a sua insaputa (l’Ordeaschi, intanto, ha combinato un bel guaio), commissionando a Raffaello l’opera monumentale nella sua dimora. Il segretario Lorenzo sbaglia bottega – su suggerimento interessato della stessa cortigiana, che adotterà un travestimento per non finire in pasto all’esercito papalino – e finisce dallo spiantato Sebastiano del Piombo. Di qui una serie di inghippi e intrighi che si risolvono in un finale non scontato. Sin da subito si coglie la prospettiva assai particolare in cui è colto il tema. Non la solita storiella della Fornarina o il tono falsamente celebrativo. Il dire non dicendo, il presentare non presentando reca in sé già qualcosa di poetico.

Il testo di Michele Pagliaroni è, inoltre, imperniato di un’energia farsesca, dalla quale tira fuori, a mitraglia, tutte le arguzie comiche: il travestimento, appunto, l’equivoco, la parodia tragica, il pastiche linguistico, l’esagerazione dei caratteri. A questi elementi, però, si aggiunge un lirismo cechoviano davvero felice che attrae lo spettatore e ne accompagna il riso in una prospettiva più ampia: il pianto. È una commozione nostalgica, non disperata. «Verdigris. Siena. Kermes. Cinabro. Sono nomi stravaganti. Eppure se li tocco, sono tutti uguali. Così una parola per bambino, una per fanciullo, per adulto e per vecchio: non basterebbe dire uomo? E poi bellezza, potere, giustizia, gioia, amore: non basterebbe dire sogni? E, a pensarci, per colori, uomini e sogni alla fine solo una parola basterebbe: polvere». Che cosa direbbe Beckett?

Leopardi aveva un pregio tra i tanti: individuare i punti d’attesa più vivaci nell’esistenza umana, e piantare un coltello nel cuore di essi. Mi riferisco, soprattutto, al Sabato del villaggio o alla Sera del dì di festa. Urbino, il sabato sera, tra le otto e le otto e mezza, sembra tirare il fiato. È forse un attimo, non so, un quarto d’ora. Il respiro urbano è sospeso, tutto si ferma, come se stesse riflettendo. Che speranze, che cori!

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La cosa che mi ha colpito maggiormente è stata la costante ed entusiasta presenza dei giovani allievi dei laboratori (gli attori, in prima battuta), i cui nomi non posso ricordare perché ci vorrebbe una recensione a parte. Alcuni di loro hanno girato per giorni con il cartellone dello spettacolo e un buco nella testa del pittore, ingiungendo ai passanti di infilare la propria e lasciarsi fotografare. Hashtag: #siamotuttiraffaello. Non so se abbia fatto tendenza, ma che speranze, che cori! (Nel senso di “cori da stadio”.) Non è un modo diverso, più sano, di allontanare il tedio?

Poggiano corvi neri sui tetti di questo marzo assolato. Il Premio Nobel Bob Dylan, quand’era all’incirca ventenne, scrisse: «Corvi neri nel campo/ aldilà dell’autostrada./ Benché sia buffo, amore,/ non mi sento proprio/ come uno spaventapasseri oggi». Le nostre autostrade sono vicoli in cui passano, incredibilmente, migliaia di auto (o anche camion) alla settimana e sei sempre costretto ad appiattirti come un ramarro sui muri affumicati dall’umidità. Si dice che, dopo i vent’anni, scrivano versi solo i pazzi o i poeti. E le canzoni?

Michele ha lavorato egregiamente e ha dimostrato che un giovane di talento può guidare un centro teatrale universitario con passione, creatività e intelligenza. A lui si affianca la generosa figura del presidente, Monica Bravi, ad ulteriore prova, se ancora ce ne fosse bisogno, che le donne possono tutto – più degli uomini – e sono la migliore risorsa che ci è dato di conoscere. Tutto questo grazie anche alla gestione lungimirante del Rettore Vilberto Stocchi, il quale ha creduto sin dall’inizio nel progetto. E allora perché non far partire proprio dall’università, e ancor di più dai centri universitari, quel sospirato innalzamento culturale che faccia da spaventapasseri ai guai del nostro Paese? «Solo il farnetico è certezza» dice Montale.

I sentimenti non si calcolano. La volontà vi aderisce liberamente. Sotto una simile egida è costruita questa farsa comica e lirica al contempo, che vede in azione due amanti improbabili, una combriccola di pittori pasticcioni e l’ombra altera e soffusa del “divinissimo”, la quale aleggia, sin dall’inizio, nel segno di «assenza, più acuta presenza». E dall’assoluta mancanza di calcolo – che, poi, coincide con la sofferenza e l’estrema purezza – accade lo scegliere liberamente il destino della propria esistenza.

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Nel novero dei ringraziamenti figurano, oltre all’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, il Comune di Urbino, AMAT, l’Accademia Raffaello in particolare nella persona di Luigi Bravi.

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