Due spettacoli da non perdere
Cattedrali napoletane
Lontano dai centri di potere, il teatro italiano produce il suo meglio. Come è il caso di “Miseria&Nobiltà” secondo Michele Sinisi e “Scannasurice" di Carlo Cerciello e Imma Villa. Una lezione per tutti!
Malgrado tutto – malgrado un regolamento ministeriale farraginoso, malgrado la continua concentrazione di poteri (e denari) nelle mani di pochissimi (spesso teatralmente inetti), malgrado il disinteresse generale che patiscono arte e cultura in questo disgraziato Paese – il teatro italiano continua a essere vivo, emozionante e sorprendente. Certo, lo dico perché sono stato fortunato: venerdì scorso all’Astra di Torino ho visto Miseria&Nobiltà da Eduardo Scarpetta nella versione di Michele Sinisi e ieri a Roma, al Piccolo Eliseo, ho visto Scannasurice di Enzo Moscato nella memorabile versione di Carlo Cerciello e Imma Villa. Si tratta di due spettacoli che girano da tempo e che rappresentano un’eccellenza di idee germinate ai margini dei poteri centrali, dei teatri pubblici e della loro (sovente) scarna forza creativa. E proprio qui sta il loro valore anche simbolico nel paesaggio asfittico di un teatro che troppo spesso nasce solo da (presunte) esigenze di mercato: questi sono due spettacoli non protetti e dunque nati sulla spinta di un’esigenza artistica. Attori e registi, qui, non dovevano soddisfare numeri o criteri di distribuzione dei poteri. La lezione che ne consegue – secondo me – è che si può ancora fare teatro in Italia, a patto di mantenersi lontani dai centri di forza (pubblici e privati): il guaio è che le leve del mercato sono nelle mani di quei medesimi centri di potere e che quindi i buoni spettacoli nati ai loro margini hanno moltissima difficoltà a farsi vedere dal pubblico. Non a caso, qui stiamo parlando di due spettacoli acclamati ovunque da critica e pubblico, ma che hanno girato poco rispetto alle loro potenzialità. Addirittura, Scannasurice arriva a Roma (fatta salva una sola replica nell’ambito de Le vie dei festival in passato) per la prima volta dopo aver girato per anni, mentre Miseria&Nobiltà non è mai stato rappresentato nella Capitale: spero che qualcuno colmi presto questa assurda, vergognosa lacuna.
Ma vediamo un po’ nel dettaglio i due spettacoli. La commedia di Eduardo Scarpetta, Miseria e nobiltà, è un’icona: il film che ne trasse Mario Mattòli nel 1954 con una formidabile coppia di attori (Totò e Enzo Turco) è un classico della comicità popolare italiana. La scena dell’abbuffata di spaghetti che chiude il primo atto incarna da sé l’iconografia della medesima comicità. Mentre il ruolo di Peppeniello («Vincenzo m’è patre, a me!») è tradizionalmente quello nel quale hanno debuttato in scena tutti i grandi figli d’arte (Pietro De Vico mi raccontò di essersi strozzato, al suo debutto a sette anni in quel ruolo, mangiando una manata di stringhe da scarpe che nella finzione dovevano essere spaghetti). Insomma, questa specie di cattedrale della comicità farebbe paura a chiunque. A meno di avere qualche buona idea per entrarci dentro. Michele Sinisi l’idea giusta l’ha trovata scarnificando l’apparato scenografico (firmato da Federico Biancalani e fatto di tiri a vista, cantinelle, un baule teatrale, due rotoli di plastica che scendono dall’alto, un tavolo…) e invitando gli spettatori a entrare nella scatola magica del teatro per una volta smontata. Tutto è manifesto, trucchi compresi. Con rispetto e senza timore reverenziale, Sinisi prende di petto i miti di Totò e Enzo Turco e li spiattella in faccia al pubblico, anche citando apertamente (con nomi e cognomi) la celeberrima lettera di Totò Peppino e la Malafemmina (Sciosciammocca nel copione scarpettiano è scrivano, no?) nonché l’omaggio che molti anni dopo ne fecero Benigni e Troisi in Non ci resta che piangere.
Direi che proprio nella citazione della celebre lettera di Totò e Peppino («C’è stata una grande morìa delle vacche, come voi ben sapete») c’è la chiave di volta di questo spettacolo ricco di invenzioni semplici. Il pubblico torinese, forse perché altrimenti abituato, non ha riconosciuto la citazione, forse non tutti conoscono l’originale… eppure hanno colto la levità della mano comica del regista e degli interpreti. Ma sarebbe lunghissimo l’elenco delle trovate – tutte efficaci – che Sinisi ha disseminato in questa sua riscrittura del mito: a partire da un uso disinvolto dei dialetti (Nord e Sud si mescolano) e una certa ambientazione moderna e sottoproletaria (sono perfetti i costumi da basso napoletano sia quando i protagonisti sono nella miseria sia quando sono nella nobiltà). E gli attori sono perfettamente a proprio agio nel produrre i caratteri, ma il loro macchiettismo non è mai becero: Diletta Acquaviva, Stefano Braschi (nel ruolo di Semmolone), Gianni D’Addario (nel ruolo di Felice), Gianluca Delle Fontane, Giulia Eugeni, Francesca Gabucci, Ciro Masella (nel ruolo di Pasquale), Stefania Medri, Giuditta Mingucci, Donato Paternoster e lo stesso Michele Sinisi che, simpaticamente, riserva a se stesso il ruolo di Peppeniello.
Scannasurice è uno spettacolo completamente differente ma ha la stessa levità: benché tratti temi ben altrimenti forti, comunica la stessa gioia scenica. Qui tutto si gioca sulla bravura di Imma Villa: una delle nostre migliori attrici, ormai matura a portare il suo talento fuori dai (comunque notevoli) confini della drammaturgia napoletana. Si tratta di un testo giovanile di Enzo Moscato, dove regna uno dei suoi proverbiali femminielli, un essere mitico (qualcosa in comune con il visionario e antropomorfo Watt di Beckett) perduto fra la concretezza della sua miseria terrena e l’apparato fantastico dei suoi racconti fatti di monacielli e madonne, topi e innamorati immaginari. Un Basile del Novecento, insomma, che naviga in quel mondo sospeso che da tempo conosciamo nel teatro di Enzo Moscato, ma al quale Cerciello e Imma Villa dànno un connotato fantastico che va ben oltre i bassi di Napoli. Per cui questa Scannasurice, creatura indefinibile, riesce a uscire dalla sua gabbia (tale è la bellissima scena di Roberto Crea) solo grazie alle sue parole che nascondono stupore e dolcezza, rabbia e ironia a seconda dei casi. Ebbene, in questa partitura complicatissima Imma Villa si muove con una sicurezza sorprendente riuscendo a comunicare più gioia che rabbia: ed è proprio attraverso questa strada che la poetica denuncia di Moscato coglie nel segno; ossia facendo a meno di quella cattiveria che talvolta traspare in eccesso dai suoi copioni (e dalle sue interpretazioni). Il merito, io credo, è anche nelle musiche lievi di Paolo Coletta che evitano di trascendere nell’antropologia dei vicoli. Insomma, anche questo uno spettacolo da non perdere assolutamente!