La band americana in tour
Un sogno in musica
Assistere al concerto dei Dream Theater è un modo per trasformare la nostra realtà abituale e disarmonica nella bellezza, nella imprevedibilità della musica dal vivo
Davanti alla sala Santa Cecilia del Parco della Musica di Roma c’è una folla di persone venute da tutt’Italia per il concerto dei Dream Theater, in tour europeo con lo storico album Images and word uscito venticinque anni fa. La band statunitense fu tra le prime, insieme ai Rush, a sperimentare il mix tra l’epicità, la durezza dell’heavy metal e la poesia più dolce, ancestrale del progressive rock. Proprio all’ingresso dell’Auditorium c’è un pianoforte, accanto un cartello con su scritto Suonami. Intorno, un gruppo di fan canta appresso al musicista che suona Another day. Tutti sorridono quando non riescono ad arrivare alle note più alte.
Il concerto è iniziato in anticipo e le persone corrono per prendere posto, illuminano i sedili con la torcia dei cellulari. Il chiacchiericcio si mischia alle ombre e alla musica. Il frontman James La Brie muove le braccia verso l’alto, indica la platea, la galleria e tutti si alzano cantando insieme a lui. L’affetto del pubblico ripaga la band, spesso accusata dalla critica di una certa freddezza dovuta al loro tecnicismo musicale.
Come al concerto del Banco, dei King Crimson, Jethro Tull, Roger Waters, quella realtà spesso abituale e disarmonica di cui faccio parte si ricongiunge alla bellezza, alla fuggevole imprevedibilità della musica dal vivo. Anche le persone intorno mi danno piacere, le guardo incuriosita e sorrido ai movimenti grotteschi ed esuberanti. Come loro anch’io mi sento partecipe di un avvenimento che resterà nella storia gruppo; durante l’esibizione il senso di estraneità scompare e il corpo sembra percepire le vibrazioni di ogni strumento come fosse sott’acqua. Muovo la testa, batto le dita sul vetro davanti al parapetto, chiudo gli occhi. Grida di esaltazione si levano quando il chitarrista John Petrucci suona le prime note di Enter Sandman dei Metallica. Si piega sulle ginocchia avvicinandosi al Mesa Boogie, il suo amplificatore. Non è la prima volta che omaggiano il gruppo di Los Angeles; tra lo stupore dei fan alla fine di alcuni loro concerti, hanno riproposto per intero l’album Master of Puppets. La larga estensione vocale di La Brie si mescola alla musica come uno strumento, ma la lacerazione alle corde vocali per un’intossicazione lo costringe ad abbassare le note di qualche tonalità quando canta Metropolis pt 1. A dominare il palco, l’enorme batteria dal ritmo storto di Micheal Mangini che resiste alla velocità dei suoi 1.247 colpi al minuto. I pannelli intorno allo strumento riflettono le luci blu, rosse, gialle. Un fascio di luce mi acceca per qualche attimo. Smettono di suonare e La Brie presenta il bassista John Myung, fondatore del gruppo insieme a Petrucci negli anni Ottanta. Dice che è tra i migliori insieme a Pastorius ma lui gli lancia un’occhiata di scherno e i capelli gli coprono di nuovo il viso dai tratti coreani tornando curvo, con lo sguardo fisso sul suo strumento. Le braccia muscolose di Petrucci stringono la chitarra, suona il riff iniziale di Surrounded in virtuosismi che mi ricordano Al Di Meola in una combinazione tra musica latina e jazz fusion e Steve Morse nella limpidezza del fraseggio. Jordan Rudess ha la tastiera e i sintetizzatori su un braccio pieghevole e gira su se stesso. Come Keith Emerson e Wakeman, mi coinvolge la fisicità con la tastiera, l’impressione che tocchi i tasti con più mani. La sua genialità lo ha portato a collaborare anche con David Bowie nell’album Heathen.
Le voci si placano, l’atmosfera diventa rarefatta quando introduce il brano Wait for sleep. I faretti ora illuminano solo lui e il suo lungo pizzetto bianco in un assolo malinconico tra musica classica e jazz con macchie musicali alla Pink Floyd. L’applauso, e poi la luce si diffonde anche su La Brie seduto sullo sgabello. Come una preghiera recita parole di dolore, di morte. I testi sono onirici, metaforici, molto vicini al rock progressivo degli anni Settanta. Luce e oscurità si sovrappongono: «(…) e l’acqua non può colpire i suoi ricordi/ E le ceneri non possono rispondere al suo dolore/ Dio, dammi il potere di prendere respiro da una brezza/ E richiamare la vita da un freddo attimo di metallo (…)».