A proposito di “Tomàs”
Tomàs, l’assente
Andrea Appetito racconta sette storie che si intersecano in un personaggio/fantasma: Tomàs, simulacro della fusione costante tra personale e sociale, tra rivalsa individuale e ingiustizia politica
Tomàs di Andrea Appetito (Effigie, 2017, pp. 170, euro 15) è un romanzo distopico ma molto insolito, in quanto centrato su sette personaggi che parlano in prima persona come confessandosi. La trama viene fuori man mano che si procede nelle confessioni. Tutti hanno in comune Tomàs, che è l’eterno assente e può essere solo amato o odiato. I luoghi sono fluidi e surreali. Le atmosfere ricordano 1984 e Fahrenheit 451, ma più quest’ultimo. La Città è divisa in Centro e Ghetto. L’incidente scatenante è l’arrivo di una nave che però solo i più attenti riescono a vedere in quanto si confonde nella nebbia. Il fatto strano è che questa nave attracchi proprio dopo che il responsabile, nonché piccolo dittatore della zona, Luka Stratos, ha deciso di chiudere il porto. Ogni nodo verrà poi sciolto nel corso della narrazione.
I primi ad accorgersi della nave sono Nikolas e Tomàs. Nikolas è il figlio di Luka e, nonostante questo, lo odia. Il disprezzo sembra essere reciproco. Ben diversi invece i sentimenti che il padre nutre per l’altra figlia: Karina. Tomàs sembra essere suo cugino, e nonostante questo i due sono attratti l’uno dall’altra. Tutti sembrano essere attratti da Tomàs. Nikolas l’ha idealizzato e in qualche modo lo emula. Forse anche lui ne è innamorato, come sua sorella. Tomàs è un ribelle. Anita, sua madre, l’ha consegnato a una vita tremendamente dolorosa. L’amore entra nel romanzo in modo sottile e invischiante.
La scrittura di Appetito, paratattica e priva di subordinate, sembra essere centrata su temi insieme intimi e politici. L’originalità del romanzo sta nell’essere un libro politico non smettendo mai di parlare di sentimenti, di storie di vita che potrebbero essere storie del nostro contemporaneo: famiglie spezzate, donne fragili che condannano i figli all’infelicità, padri violenti e dispotici, mogli psicotiche e pazze d’amore non corrisposto. Amicizia, amore, incesto, anelito di rivolta. I legami famigliari rimandano alle tragedie greche, c’è qualcosa di fortemente sofocleo in questo libro.
In qualche modo nel romanzo emerge l’intrinseca connessione tra personale e sociale, tra rivalsa individuale e ingiustizia politica, tra sentimenti e azioni dal risvolto ben oltre la portata dell’interpersonale.
La trama è costruita con cura minuziosa e a ogni capitolo c’è un tassello in più da ricomporre. Uno stile frammentario e dunque poetico pur senza strizzare l’occhio al lirismo. Alla fine del primo capitolo sappiamo che Tomàs sparisce, tutti i personaggi lo cercano ma nel cercarlo scoprono ciascuno qualcosa in più su se stesso.
L’ultimo dei sette è proprio Luka Stratos, che rivela una personalità complessa, di quella durezza e chiusura degli uomini del risentimento di nietzscheiana memoria. Un risentimento che affonda le radici nell’infanzia, nei traumi impossibili da cancellare che fanno da preludio al progetto di assoggettare a sé il mondo, in principio così crudele. Questo, il meccanismo perverso che perpetra l’assoggettamento degli esseri umani, la regola del fare all’altro quel che è stato fatto a sé, se non peggio, diviene un preciso fondamento politico, quello che divide vincitori e vinti, secondini e detenuti, centri lussuosi e periferie fatiscenti. Così le due personalità, opposte ma speculari, di Stratos e Tomàs, si delineano come due possibili opposte risposte alle ferite private e sociali.
«Forse Tomàs fingeva con tutti. Era così bravo a fingere che non me n’ero mai accorto. O forse non avevo voluto accorgermene. Continuavo ad illudermi che eravamo ancora uniti, mentre lui pensava soltanto ad andarsene. Ero così stupido, gli volevo così bene, da non vedere. Soffrivo al pensiero che mentre eravamo insieme al faro, a guardare la nave, lui stesse pensando ad altro. Ad altri. A mia sorella. Ai suoi amici del Ghetto. Alla vita in un’altra Città. In quel momento avrei voluto essere sulla nave. Anche se fosse stata piena di appestati. Meglio sulla nave che nel salone della casa di mio padre, con mia madre e Tomàs. Desideravo che la nave arrivasse fino al Centro, per portarmi via».