Autobiografia della sinistra fallita
Storia di un suicidio
Quand'è che la sinistra scambiato la furbizia con l'intelligenza, la presunzione con la determinazione, l'insolenza con la forza di carattere? Analisi di un fallimento, da Botteghe Oscure a Trump
Ci deve essere stato un momento preciso a partire dal quale abbiamo cominciato a parlare non perché preoccupati di dire qualcosa, per la necessità di spiegare le nostre ragioni semmai spinti dalla voglia di cambiare il mondo, ma soltanto per stupire, lasciare gli altri a bocca aperta, permettere che il fascino di cui crediamo di essere dotati li convincesse e inducesse a stare dalla nostra parte. C’è stato un punto di avvio a cominciare dal quale ci è sembrato meglio aggredire che motivare, avere un nemico da irridere piuttosto che un avversario con cui dialogare. Abbiamo, di conseguenza, cercato di capire cosa pensasse la maggioranza, così da ottenere più facilmente il consenso, sentire più forte il plauso quando affondiamo il colpo. Abbiamo cominciato a parlare usando slogan sempre più facili, sempre più rozzi, abbiamo voluto parlare come i comici, perché le nostre parole fossero accolte con minore riluttanza; abbiamo creduto che la satira fosse già essa stessa politica: non costruire ma beffeggiare, non comporre i dissidi ma esaltarli, non superare gli ostacoli ma mettere alla gogna chi ce li mostra.
«Quand’è che siamo diventati stronzi? Come abbiamo fatto a non accorgercene?», si chiede il personaggio che racconta la vicenda di Una storia quasi d’amore, il bel romanzo di Paolo Di Paolo pubblicato nel 2016. E quando è accaduto, viene fatto di aggiungere, che siamo diventati arroganti, pieni di risentimento, rancorosi, sempre pronti a tirare fuori una ricetta che gli altri non sono in grado di mettere in pratica? Quando è che abbiamo cominciato a far credere che tutto fosse facile, che bastasse dichiarare di essere più bravi degli altri per aver risolto ogni problema? Quando abbiamo capito che è sufficiente parlare male di qualcuno, meglio se ha raggiunto una posizione di responsabilità, per ottenere attenzione e, quasi sempre, indici alti di gradimento? Quando abbiamo scambiato la furbizia con l’intelligenza, la presunzione con la determinazione, l’insolenza con la forza di carattere?
Il risultato di questo modo di fare, che la tv ha largamente introiettato e diffuso senza tregua (o siamo stati invece noi a introiettare e a scimmiottare?) è una politica che procede a strattoni, condannata a piacere e dunque esposta al più bieco populismo. Il populismo ragiona per formule, anche facilmente applicabili, ma di cui vengono nascoste le conseguenze, spesso maggiori dei mali o del tutto imprevedibili. Quello che sta accadendo negli Usa dopo i primi atti della presidenza Trump è sotto gli occhi di tutti, ma è solo l’inizio di una reazione a catena dagli esiti imponderabili. Alzo un muro e mi sembra che il problema sia superato, che nessuno più verrà a darmi fastidio. Ma quelli che sono al di là del muro come reagiranno? E io, che non riesco più a guardare oltre, sono solo più protetto o anche più cieco?
In questo scenario poco rassicurante è immersa anche la sinistra italiana. È immersa, sprofondata anzi ogni giorno di più, sempre rischiando di annegare, e sempre annaspando non come chi stia cercando di salvare se stesso e gli altri, ma come l’uomo al colmo del livore che vede nel pericolo l’occasione per eliminare il proprio nemico. E il proprio nemico è lì accanto, il più vicino.
La storia della sinistra italiana degli ultimi decenni, in particolare del Partito Democratico, è un susseguirsi di illustri annegati, un cimitero marino di segretari e presidenti del consiglio affondati per opera di una parte del loro stesso equipaggio. Ognuno dei quali poi, in veste di fantasma, ha cercato il modo di vendicarsi, semmai sostenendo le stesse ragioni e utilizzando le stesse modalità un tempo disprezzate e che sono servite per escluderlo.
È una storia di ipotesi di scissione – che hanno poi avuto risibili conseguenze – e di ben più gravi ammutinamenti, costruiti solitamente mettendo in discussione le singole scelte di chi ha posti di responsabilità, vivisezionando programmi un tempo semmai approvati dagli stessi ribelli con grande clamore e con bulgare maggioranze. È una storia di vili agguati, di rassicurazioni fasulle, di rigori tirati senza convinzione e di rigori tirati a bella posta per sbagliare
Così abbiamo perso di vista l’obiettivo, il punto di approdo della navigazione, il cambiamento da realizzare per il bene collettivo, e ci siamo fermati per scoprire l’anello debole nel procedere di chi ci stava accanto, abbiamo aspettato con cinica fiducia l’inevitabile scivolata con l’intenzione di metterla subito a profitto. Siamo diventati abilissimi nel formulare princìpi generali di grande valore politico, ma difficili da mettere in pratica, e poi nel richiamare l’azione degli altri al rispetto di ogni passaggio procedurale, al particolare senza il quale sembra che l’assetto complessivo sia destinato a crollare.
E poi la sinistra è diventata bravissima a rincorrere. Tempo fa un federalismo, che a ben guardare ha accentuato egoismi e particolarismi, poi l’idea che dovesse essere un uomo da solo a risolvere i problemi. Ora è attratta dall’ipotesi di indebolimento dell’Europa per rafforzare le scelte di livello nazionale e addirittura che la questione della legge elettorale possa risolversi con un ritorno al sistema proporzionale.
E ci sarebbe una partita da riaprire sulla riforma costituzionale. Ma sempre senza grandi idee, pensando piuttosto al vantaggio particulare, a chi far tirare il rigore e come fare per indurre a sbagliarlo. Pensando al prossimo capitano da annegare.
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Nelle immagini, il Sessantotto nelle fotografie di Uliano Lucas