Incontro con Gianfelice Imparato
Il segreto dell’attore
«Le etichette non servono, il teatro è uno solo. E quando ne hai capito il segreto, puoi fare tutto. Quel che conta è che il personaggio non sappia quel che gli sta per capitare»: la lezione di Gianfelice Imparato
Gianfelice Imparato è un attore schivo: in scena sta sempre al suo posto, impreziosisce ciò che tocca (e interpreta) ma non sovrasta né i personaggi che interpreta né gli altri attori. L’ho visto recitare dozzine di volte nei contesti più disparati e ogni volta sono rimasto colpito da questa sua capacità di essere sempre parte di un disegno. Ora, insieme a Carolina Rosi, porta sulle spalle un’eredità pesante, quella che da Eduardo De Filippo sale prima alla scuola scarpettiana e da lì ridiscende per li rami della grande commedia napoletana tra fine Ottocento e Novecento (ossia la commedia della Napoli “italiana”) e che conduce fino a Luca De Filippo. Il quale, prima di morire prematuramente e improvvisamente, cucì la regìa di quel Non ti pago! che per l’appunto Carolina Rosi e Gianfelice Imparato portano in tournée da tempo insieme a un gruppo di bravi attori, da Nicola Di Pinto a Massimo De Matteo a Giovanni Allocca.
Chi non conosce Gianfelice Imparato, però, non deve pensare a un attore/fotocopia, a un epigono d’altre scuole: è invece un interprete che ha seguito una strada personalissima, tortuosa, raffinata e popolare al tempo stesso. Da Galdieri (Mico, non il mitico Michele della Rivista, ovviamente) alla Gatta Cenerentola, da Carlo Cecchi a Eduardo a Luca De Filippo: sempre con un segno proprio, indelebile. Andate a vedere questo Non ti pago! che ora si dà all’Argentina di Roma, e capirete.
Prendiamola alla larga: il tuo percorso è parallelo a quello di altri grandi esponenti del nuovo teatro napoletano, penso a Mario Martone e Toni Servillo. Partiti da esperienze anticonvenzionali, siete approdati – sia pure ciascuno a proprio modo – alla necessità di recuperare la tradizione drammaturgica napoletana.
Io credo che spaziando e avendo più maestri, si maturano più esperienze. E alla fine si arriva a capire che il teatro è uno. Uno solo, sempre: avanguardia, tradizione… le etichette servono a poco. Il segreto del teatro è unico ed è trasversale: una volta che lo hai capito, allora sei in grado di muoverti agevolmente dappertutto. Bernhard o De Filippo, Pinter o Goldoni, fa lo stesso. Certo, purché i testi con i quali un attore si misura siano scritti bene… ossia mettano in scena fatti, non li raccontino e basta. Non sono sufficienti le idee forti: a teatro le cose devono capitare davvero davanti agli occhi dello spettatore.
E qual è, allora, il segreto del teatro?
Quando c’è la premessa di una buona scrittura, l’unica fatica dell’attore è gestire la schizofrenia tra quello che sa l’interprete e quello che sa il personaggio. Cioè, il personaggio deve vivere senza sapere che cosa succederà nella scena successiva. Appunto: le cose devono accadere, in scena, altrimenti lo spettacolo è noioso, formale.
E ovviamente anche il segreto della scrittura è tutto qui: costruire l’azione senza che i personaggi sappiano il loro futuro.
Certo. Se si contamino le conoscenze tra attore e personaggio, allora lo spettacolo non emoziona. Ci sono due modi per essere attore… quando me ne sono reso conto, ho pensato di aver avuto un’intuizione geniale: solo più tardi ho scoperto dopo che erano già state capite e teorizzate da tanti altri prima di me… Jouvet, per dire.
E quali sono questi due modi?
Il primo consiste nel portare il personaggio a sé, che è un modo che molti usano anche perché è più proficuo dal punto di vista della riconoscibilità, della visibilità. E l’altro, che è quello che io credo sia più corretto, consiste nel mettere se stessi a disposizione del personaggio. Essere ogni volta differente e vivere proprio quelle emozioni e quelle sorprese, in scena, tutte le sere nuove. Io ho avuto due lezioni, in questo senso. Una sintetica, da Eduardo. Perché Eduardo tramandava il suo sapere in modo pragmatico e sintetico. Poi, non stava lì a farci ragionamenti su: chi acchiappava andava avanti e chi no, rimaneva indietro, era molto spartano. Insomma, una volta mi affidò un bel personaggio che aveva una scena importante con un applauso finale grazie a una carrettella…
Che testo era?
La fortuna di Pulcinella: doveva essere il 1981, la prima compagnia di Luca, subito dopo La donna è mobile… Ebbene, la prima sera l’applauso venne, ma la seconda sera no. Io me ne rammaricai moltissimo e il giorno dopo, mi avvicinai con il cuore che batteva a Eduardo e lui: «Voi sapete perché non è arrivato l’applauso?» (Eduardo dava del voi a tutti, anche a noi ragazzi). Io dissi: «No, Direttore, forse ho sbagliato i tempi comici…». «Nossignore. I tempi erano giusti. Ma voi sapevate che arrivava l’applauso: non lo dovete sapere!». E qui c’è la sintesi di quello che poi, in modo molto più articolato, ho elaborato con l’altro mia grande maestro che è Carlo Cecchi.
Prima dicevi che, per te, la strada migliore è quella di mettere te stesso al servizio dei personaggi. Eppure la comicità popolare è sempre andata in un’altra direzione: trasformare l’attore in una maschera… che fa sempre se stesso dentro tutti i personaggi.
Appunto, la parola chiave è maschera: Alberto Sordi, Totò, Benigni… la casistica è sterminata. Però questi sono attori/maschere, magari grandissimi, mentre io sono un attore/interprete. Per altro, dietro quelle maschere non è detto che ci fossero veramente loro come uomini…
… erano maschere teatrali, certo.
L’attore/interprete può essere comico a propria volta. Ma lo farà interpretando i sentimenti del personaggio all’interno di una drammaturgia definita.
Facciamo un passo indietro. Hai parlato di tempi comici. Sapresti spiegare a un giovane come si calcola un tempo comico?
No. Credo sia come essere intonati. Come si fa a essere intonati? Non si può spiegare… è una questione di talento. Lo stesso vale per il tempo comico.
Vidi una volta Peppino De Filippo provare una scena comica. Continuamente diceva al suo assistente, che teneva il copione in mano: qui segna uno, qui segna due, qui segna tre. Poi gli chiesi: che cosa sono quei numeri? I tempi comici, mi rispose. Ma uno, due, tre che cosa? Quello lo so io: i tempi comici…
Sì, i vecchi attori contavano… c’era anche chi divideva i tempi in pari e dispari: i pari comici, i dispari drammatici… mi pare. Ma nessuno ha mai voluto svelare il segreto. Io, per quel che mi riguarda, ho rubato da tutti, rubato, poi… non è la parola giusta, ma alla fine ho trovato il mio bagaglio personale: perché se tu passi nei solchi dei grandi, rischi di caderci dentro, a quei solchi, senza più poterne uscire. Allora bisogna trovare una strada a latere che, nel rispetto della tradizione, abbia una sua autonomia.
In questo Non ti pago! tutto ciò è evidente: uno spettacolo che rinnova la tradizione con un taglio molto personale. Gianfelice Imparato non rifà Eduardo, assolutamente…
Sì, però la macchina che muove lo spettacolo è la stessa della tradizione.
Certo. E gli stessi caratteristi, in questa bella messinscena sembrano citare i trucchi teatrali che utilizzano. A proposito: qual è il destino di questa bella compagnia?
Mi auguro – e ci sono tutti i presupposti – che vada avanti per parecchio. Del resto, Carolina Rosi è molto determinata in questo senso. L’ha dimostrato con un segno preciso: quest’anno abbiamo debuttato con un lavoro nuovo, Questi fantasmi con la regìa di Marco Tullio Giordana. Capisci bene che non è remunerativo allestire uno spettacolo e poi cominciare a farlo girare, quindi a rientrare dell’investimento, solo dopo un anno; però lei coraggiosamente l’ha voluto fare per dare il segno che questa compagnia ha un progetto lungo. E poi c’è un’altra componente: questa è la compagnia di Luca De Filippo. E Luca la compagnia la costruiva come una famiglia: oltre al talento, badava anche alle qualità umane. Siamo una compagine affiatata: e questo, quando siamo in scena, il pubblico lo sente. È come se ci fosse un’energia in più: un amalgama che, magari, se capita, copre anche qualche piccola imprecisione occasionale…
So che tu sei falegname: questo magnifico baule da camerino lo hai costruito tu! In che modo questa passione ti aiuta, nel tuo essere attore? Ti dà ordine?
Non soltanto. Fare l’artigiano ti aiuta a pensare prima, e bene, a quello che stai facendo. E, quando ti sbagli, ti insegna a risolvere i problemi che hai creato. Una volta feci un mobile, un bel mobile, ma sbagliai una misura e venne fuori un rientro di un centimetro: dovetti pensare parecchio per trovare una soluzione che nascondesse il mio errore. Ecco, in questo anche gli attori sono artigiani.
Un’ultima domanda: quando vai a portare altrove – fuori da Napoli, voglio dire – il bagaglio culturale napoletano, ti capita di incontrare delle difficoltà? Viviamo in un tempo di differenze ostentate, di localismi, di insofferenze…
La fortuna è di avere un bagaglio – teatralmente – potente, tanto da non dover temere ostilità. L’unica accortezza, qualche volta ci capita di edulcorare un pochino il dialetto… ma piccole cose. Perché poi, la forza del teatro io l’ho verificata ovunque: è una questione di energia. E quella è più forte di qualunque localismo o insofferenza.