Periscopio (globale)
La poesia in prosa
Gabriele Belletti, seguendo il modello di Bertolucci e Guidici, sperimenta una nuova via della poesia narrativa: un genere che lega direttamente le emozioni al racconto
Qualche giorno fa ho avuto il piacere di dialogare in pubblico con Gabriele Belletti e di presentare Krill, un suo libro di poesia uscito nel 2015 per Marcos y Marcos. Libro che rappresenta un’ottima occasione per puntare i riflettori, una volta tanto, su una modalità poetica che sembra abbastanza avulsa dalla nostra tradizione. Parlo della poesia narrativa, di stampo anglosassone, in cui si attua un certo abbassamento formale, in senso prosastico, del dettato, ma senza che questo debba necessariamente svilire il registro linguistico scelto dal poeta.
Ma partiamo pure dal libro di Belletti per poi sfumare e allargare il discorso. Intanto, Belletti compie un’operazione importante: non si limita a radunare un certo numero di componimenti sparsi, una silloge magari anche di belle poesie, ma ragiona fin da subito nei termini, a mio avviso ormai indifferibili, di unità e compattezza, elaborando un libro compiuto (e molto progettato) in cui il singolo testo è funzionale al tutto. Per far questo, si serve fra l’altro di un procedimento stilistico e drammaturgico come la riesumazione attualizzata del coro della tragedia greca, che diventa il vero filo d’Arianna della sua ricerca e la voce sottesa all’intera narrazione, condotta seguendo un andamento diaristico. La trama o vicenda è duplice e bifronte: assistiamo da un lato all’esplosione della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, del gruppo British Petroleum, un incidente occorso fra il 20 aprile e il 4 agosto del 2010 nel Golfo del Messico; dall’altro, alla parallela implosione, per una malattia inafferrabile e spietata, di una donna anziana, Dina, che, ricoverata in un nosocomio per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, si appresta a lasciare questo mondo. Nel lento addio all’universo e alle cose che la sua psiche confusa e disorientata si concede, Dina si trasforma gradualmente, nella finzione poetica, in una balena, simbolo archetipico della rinascita dopo l’attraversamento del deserto affettivo e lo scontro con il Male. La balena (e per estensione la stessa Dina) è rallentata da remore, nella tradizione della Storia naturale di Plinio, e si salva alla fine alimentandosi grazie al krill, un nutrimento pulviscolare che consente a molte specie di sopravvivere. Da cui il titolo del libro, che altro non è, in fondo, se non un inno al cambiamento e alla sopravvivenza.
Il testo di Belletti è perfettamente in linea con la post-modernità, se in essa vediamo fra altre cose l’abbassamento formale, cui già accennavamo, del dettato poetico, che è poi una delle conseguenze della rivoluzione del verso libero, ma anche – direi – di quella morte del lirismo già preconizzata nei primi anni Settanta da poeti così diversi fra loro quali Pasolini, Bertolucci e l’ultimo Montale. A questo proposito non è forse casuale che Trasumanar e organizzar, Viaggio d’inverno e Satura escano nello stesso anno, il 1971, anche se quella di cui parliamo è una tendenza che in forme forse meno evidenti si era cominciata ad avvertire fin dagli anni Cinquanta. In quel contesto proprio Bertolucci avvertì che “la poesia si nutre di prosa, utile a sfamarla, ma non ha contatti con essa. Può anche fingere d’imitarla, ma guai se non è ben conscia di fingere e la imita sul serio.” Malgrado i successivi colpi di coda di maestri quali Fortini e Sereni, che riuscirono con notevole abilità e fermezza a rimettere in gioco il lirismo, sia pure attualizzato e depurato, riallacciandolo all’attualità e alla profondità della vicenda umana, è un fatto che il lessico poetico di quegli anni si avvicinò gradualmente a quello della prosa, sancendo e stabilendo così anche i limiti del proprio discorso. In questo senso mi pare che Belletti s’inserisca in una tradizione feconda e importante, sfuggendo alle insidie dell’intimismo e riscrivendo il registro del vissuto quotidiano in termini trasfigurati che trascendono tanto il personaggio, quanto il soggetto che scrive.
La lingua si fa dunque piuttosto nitida e semplice; l’uso dell’enjambement e la frequenza della rima interna consentono una fluidità e una cantabilità che si trasformano in una specie di esorcismo contro il dolore, da sconfiggere grazie al canto collettivo del coro, ma soprattutto grazie alla parola poetica. Il tono generale non può quindi essere aulico o solenne; al contrario, sembra quasi volersi rimpicciolire, scomparire dinanzi all’immensità della risposta che la natura sa e può dare alla catastrofe, nel senso etimologico originario di katà-strèpho, ovvero capovolgimento o rovesciamento di un ordine dato. Ma è in fondo la parola, da sola, a operare una redenzione, tanto più importante quanto più generale, tale cioè da applicarsi a uomini, animali e piante, e dunque alla natura, di per sé innocente, nel suo complesso. È la parola a farsi krill, nutrimento primordiale del lettore.
Stiamo parlando di un approccio raro e insolito, che può scontare magari qua e là qualche calo di tensione, ma che ha il merito di avviarsi su itinerari nuovi, rifuggendo una consuetudine poetica spesso ingessata. Tanto per dare un’indicazione concreta, quando il poeta scrive “la donna corpulenta / diventa abitante / dello stesso ospedale, / dove le porte fingono l’uscire / per far subire / il definitivo / entrare” è del tutto consapevole dell’apparente banalità lessicale e sintattica cui sembra consegnarsi; ma è altrettanto consapevole, e forse al tempo stesso fiero, del pensiero profondo che quest’apparente semplicità gli consente di enucleare. O, per fare un altro esempio emblematico: “dentro la donna ignara / la notte / fonda // schiude uova dell’amara / malattia / immonda”: ecco che qui la struttura A-B-C//A-D-C, con le sue rime quasi forzate e le sue cantabili ripetizioni, contribuisce a un rafforzamento, anzi quasi a un martellamento, di quanto Belletti intende esprimere.
Dicevamo che si tratta di una poesia molto più vicina a esperienze anglosassoni che non alla nostra tradizione: e non penso tanto alla cosiddetta poesia confessionale, all’indecent exposure che riscontriamo in molti autori della seconda metà del Novecento, dalla Bishop a Berryman, da Sylvia Plath alla Sexton, fino all’ultimo Lowell, quanto, per rimanere più vicini ai nostri giorni e fatte salve tutte le differenze stilistiche, alle vere e proprie narrazioni in versi di McKendrick o alla Fine del Titanic di Enzensberger. Se poi un corrispettivo nella poesia italiana va cercato, lo si troverà forse proprio nel poeta che Belletti non a caso cita in esergo, e cioè Giovanni Giudici, di cui riporta versi da O, Beatrice che sono significativamente, ancora una volta, ispirati alla concretezza del corpo, nel solco di una poesia colloquiale che rifugge tanto la Scilla dell’esaltazione religiosa quanto la Cariddi dell’impegno civile troppo esibito. In un breve saggio del 1964 Giudici preconizzava non a caso la necessità di dar vita a “un’invenzione linguistica per molti aspetti simile al bricolage, arricchendo e integrando la convenzione linguistica-letteraria prevalente di elementi ed usi lessicali e sintattici attinti a zone diverse e assumendoli al livello della letterarietà.”
Prendendo le mosse da Giudici e tornando al contempo all’acuta avvertenza di Bertolucci che citavamo in precedenza, l’ancor giovane Belletti sembra non solo aver intuito, fin dal suo esordio, il pericolo che la prosa rappresenta per la poesia, ma aver altresì tentato di applicare una strategia valida per eluderlo. Un percorso stimolante, il suo, da verificare con le prove future, che può dare spunti validi anche ad altri autori interessati a sperimentare nuove strade.