A proposito di “Odissea a/r”
Maieutica di Omero
Zeus culturista, Penelope dimessa, Calipso come una sirena... è il mito di Ulisse e Telemaco adattato da Emma Dante al suo laboratorio teatrale di Palermo. Dove cercare il teatro diventa una ricerca di vita
Tempo fa, proprio per Succedeoggi, recensivo uno spettacolo/saggio di Antonio Latella intitolato Faust Diesis che rappresentava l’esito finale del percorso di formazione di venti giovani attori neo-diplomati all’Accademia Silvio D’Amico di Roma (clicca qui per leggerlo). Ricordo che quell’esperienza di visione – tra l’altro davvero interessante – mi dette l’occasione per riflettere sulla pedagogia teatrale e, tanto più, sul ruolo nevralgico che essa gioca nella trasmissione di un “sapere” e una “sapienza” mai sganciati dalla pratica sublime del palcoscenico, e la cui sopravvivenza fa i conti da sempre con la capacità/volontà di innescare scambi fecondi tra docenti e discenti, maestri e allievi. Basti vedere quanta intelligenza ci sia, ad esempio, in quelle lezioni di Luca Ronconi documentate nel film La scuola d’estate di Jacopo Quadri («È un percorso nelle passioni del più intimo atto di creazione, tra l’ardore dei testi e l’amore irriducibile per il teatro. Da una parte la vita comunitaria degli allievi attori, dall’altra il Maestro maieuta. Si parla di teatro, ma soprattutto di vita»).
Insomma, questo pensiero della “trasmissione” come canale unico e privilegiato di permanenza del teatro nella nostra civiltà culturale mi accompagna costantemente. E mi è tornato all’attenzione con prepotenza qualche sera fa mentre assistevo al lavoro Odissea a/r di Emma Dante: anch’esso un saggio – se così vogliamo chiamarlo, ma la parola mi risuona sempre con un certo fastidio – in cui ventitré allievi della Scuola dei mestieri dello spettacolo del Teatro Biondo di Palermo diretta dalla stessa regista hanno interpretato, ballato e cantato una rivisitazione moderna del poema omerico dai contorni estremamente vitali.
Non è mai facile accostarsi al mito e all’epica per tradurli in teatro. Sarebbe a dire, in un evento “in vita” dove i cardini del mondo archetipico classico – e soprattutto le categorie di necessità e destino – sappiano parlare un linguaggio nuovo, capace ancora di dire, suggerire, muovere idee. Dopo aver a più riprese e in diverse forme attraversato lo scabroso dramma di Medea, la Dante ha costruito sull’Odissea omerica uno spettacolo che, da questo punto di vista, è riuscito pienamente nell’intento. Reduci da un complesso laboratorio durato due anni, questi giovani neo-attori hanno messo in scena la loro versione del mito di Ulisse, e ci hanno sfacciatamente mostrato che il motore centrale del loro teatro è il corpo. Il corpo nel suo moltiplicarsi in decine di alter ego possibili. Il corpo come movimento e disegno coreografico. Il corpo come contatto, sensualità, violenza, ma anche armonia, geroglifico continuamente composto e ricomposto. Tanto più che proprio in questo uso smodato del corpo ho ritrovato molteplici assonanze non solo con il ben noto repertorio della drammaturga siciliana, ma con il lavoro stesso di Latella sul Faust.
Probabilmente, proprio in considerazione della giovane età dei suoi interpreti, la drammaturga e regista palermitana anche stavolta – e dico “anche”
pensando soprattutto ad allestimenti recenti come Le sorelle Macaluso – realizza una visione leggera, brillante, vivace, energica di alcune parti della celebre opera, facendone una sorta di cabaret dove la Sicilia entra come anima canora, come dialetto, come scenario familiare, come immagine marina. Non è un caso che il lavoro, debuttato a Spoleto e visto all’Argentina nelle settimane scorse ma ora in tournée, prenda a partitura-base la prima parte del poema, quella Telemachia che spesso passa in secondo piano rispetto agli episodi più famosi e più scolastici dell’opera. E invece, secondo la Dante (che firma anche elementi scenici e costumi), è proprio nella vicenda del figlio che cerca il padre e, cercandolo, tenta di colmare il vuoto di quell’assenza (e dunque di crescere) che si gioca la partita più attuale di questo mito senza tempo. Telemaco è infatti qui un ragazzo come tanti, ormai ventenne, che interroga divinità e principi per avere notizie del genitore partito per la guerra due decenni prima. In questa sua “quête” si insinua però un bisogno ancestrale. Un bisogno odierno. Lo ha scritto egregiamente Massimo Recalcati nel suo bel saggio Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre (Feltrinelli). Il mito di Telemaco è la ricerca della legge, di un potere normativo, di un modello che affianchi il duro mestiere di diventare adulti. E di un padre così ha bisogno pure il palazzo di Itaca, affollato di proci e ragazze persi in gozzoviglianti festini.
L’intuizione di questa lettura affettiva e familiare – tanto più che la famiglia è il cuore pulsante dei primi capolavori della regista – è a suo modo originalissima. Ciò premesso, se poi il disegno drammaturgico-registico tradisce il fatto che si tratti di un saggio è forse meno importante delle ragioni che lo muovono. Odissea a/r non può prescindere dall’esigenza di far partecipare tutti gli allievi a un’esperienza di crescita personale e artistica (e tutti hanno contribuito, come si legge nelle note di regi, in fase di improvvisazione e di semina laboratoriale) che li chiama anche ad una sfida con la loro scelta e con il loro stesso futuro.
Ecco dunque una messinscena in cui le situazioni si aprono ad un registro sempre corale, come se i punti di fuga e i personaggi si moltiplicassero. Ecco corpi che mutano, si intrecciano, si trasformano quasi fossero essi stessi la scenografia “fisiologica” dello spettacolo (dove gran merito va sia alle luci di Cristian Zucaro sia al suono di Gabriele Gugliara).
A stagliarsi da questo afflato plurale troviamo Zeus, “ridotto” a un culturista vanesio e muscoloso che impartisce ordini esibendo il suo fisico scultoreo, e Penelope, anche lei abbassata al rango di una donna dimessa e semplice che smorza nel quotidiano l’ansia dell’attesa. Nella fluidità di un ritmo scenico che non ha cesure, la visione passa da un’isola di Ogigia abitata da tante Calipso spumeggianti tra onde di stoffa alle feste di palazzo cariche di sensualità e godimento. Le musiche e le canzoni siciliane, scritte da Serena Ganci e Bruno Di Chiara, arricchiscono l’atmosfera mediterranea di questo varietà contemporaneo, mentre alcune scene molto poetiche, come quella del lungo telo grigio srotolato danzando per ricoprire Penelope, fanno da contrappunto lirico alla giocosità dell’insieme.
E poi c’è il mare. Un mare spesso evocato che fa pensare alla terra dei legami scomposti, delle partenze, degli addii, alla paura della morte. Ma la vicenda, in fondo, è solo e semplicemente il racconto di un ritorno, una atto di nostalgia (non a caso il peregrinare di Ulisse è definibile proprio come “nostos”, viaggio di ritorno), un ritrovarsi tra figlio e padre e tra marito e moglie. Senza tragicità o toni lugubri. Qui tutto è festa, colori, costumi da bagno, energia giovanile, sudore, inquietudine adolescenziale. Arriva giustamente il tempo che l’uomo adulto torni al suo posto, alla sua casa: che il suo destino di eroe/padre si compia. Ma gli dei stavolta non sono più credibili e la sorte ha il sapore di uno sgomento tutto moderno. In tanti passaggi si ride. In altri il clima è più compassato. E certamente non si può negare che sul fronte drammaturgico il lavoro appaia spoglio, esiguo, fragile. Ma, mi piace ripeterlo, non credo che l’intento originario della Dante fosse riscrivere l’Odissea traducendola in uno spettacolo simile ai suoi più riusciti e maturi. Qui ella si presta ad un servizio pedagogico e il cuore di questo “saggio” sta nel far capire a dei giovani teatranti che in scena si gioca con faticosa spudoratezza a inventare corpi e movimenti e parole che sono molto di più di corpi, movimenti e parole. Perché sono sedimenti di un sapere e una sapienza che si imparano affinché vengano a loro volta tramandati; che travasano di opera in opera, che si trasformano sempre e comunque. Proprio come i miti più belli.