Itinerari per un giorno di festa
Le parole di Roma
A spasso nei rioni storici, prendendo spunto dai libri (sette) che Fabio Leone ha dedicato alle “Facciate parlanti” della Città eterna. Motti, citazioni dotte, moniti, consigli di vita e perle di saggezza nella lingua dei quiriti celebrano dai palazzi la cultura classica come patrimonio comune
Roma è una città chiacchierona. Basta fare una passeggiata tra vicoli e Tevere e alzare gli occhi sui muri dei palazzi. Li troveremo ricchi di iscrizioni dotte o di motti. Vi scoveremo spicchi di storia, grazie al nome di chi le ha edificate, o alla testimonianza degli eventi ai quali hanno assistito. Alle Facciate parlanti Fabio Leone, ingegnere capitolino, ha dedicato molti anni. Una passione nata dalla sua attività di tecnico e valutatore dell’edilizia civile e dalla dedizione alla propria città. Ne sono scaturiti sette libri (Edizioni Martini Maria Cristina), ciascuno dedicato a una fetta urbana. E allora andiamo nel settore che più incuriosisce da questo punto di vista, il cuore di Roma. Lo sguardo si poserà a leggere e interpretare le scritte sugli edifici dei rioni Pigna, Sant’Angelo, Campitelli, Celio, Ripa, San Saba, Testaccio. Come dire, la città più antica e blasonata.
Soffermarsi sulle “facciate parlanti” serve anche a ripassare il latino. I motti usano per lo più la lingua dei buoni quiriti, anche quando non sono citazioni dai classici. Avviene non solo nelle costruzioni dei secoli scorsi ma anche su quelle d’inizio Novecento. Segno, notava Giulio Andreotti nella prefazione al secondo volume di Leone, uscito nel 2009, che «la cultura classica anziché bistrattata e guardata con un po’ di disprezzo come sarebbe avvenuto in seguito, era sentita come patrimonio comune e largamente condiviso».
Ma insomma, che cosa dicono i palazzi romani? Nelle abitazioni private, nei condomini, prevalgono perle di saggezza, consigli di vita. Ecco la Casa dei Vallati, al civico 28 di via del Portico d’Ottavia. Una costruzione trecentesca, rimaneggiata nel ‘500 e rinvenuta nel 1926 durante l’abbattimento delle casupole addossate al Teatro di Marcello. La capitale mussoliniana, pregna di megalomani progetti urbanistici, ne fece nel 1933 uno spazio per la Ripartizione Antichità e Belle Arti del Comune. Ma sull’architrave della porta rinascimentale resta la scritta, borghesissima, Id velis quod possis, ovvero “Desidera quello che puoi conseguire”, tratta da una commedia di Terenzio, l’Andria. Al motto scelto dalla nobile famiglia si affianca però una targa che ricorda la deportazione nel 1943. Perché allora a casa Vallati abitavano degli ebrei.
Dominus Deus pro videbit (Il Signore Iddio provvederà) suggerisce la citazione dalla Genesi incisa su Palazzo Lovatelli, in via della Tribuna di Campitelli nn.15-16. Lo stabile fu realizzato a cavallo tra Cinque e Seicento dai Serlupi, nobili romani. Ed è passato di blasone in blasone: nel Settecento i Ruspoli, infine i Lovatelli, che s’imparentarono con i Caetani. Tutti legati a doppio filo col Vaticano, papalini che mai si sarebbero sognati di modificare il motto risplendente sull’architrave della propria dimora e tratto dalla Bibbia.
Marmo rinascimentale inciso con parole sagge anche dove meno te lo aspetti. Al rione Ripa, su un portale che incornicia un’autorimessa in via di S. Alberto Magno n. 17, angolo via di Santa Sabina. Proviene da un magazzino del sale lungo la vecchia via Salaria, altezza Santa Maria in Cosmedin. Papa Urbano VIII, per evitare effetti corrosivi del salnitro sulle rovine romane, fece trasferire i magazzini sull’Aventino. Come il portale sia finito a incorniciare l’autorimessa resta però ancora un mistero. Ma la scritta Omnium rerum vicissitudo est (“tutte le cose hanno la loro vicenda, insomma nulla v’è di stabile”) tirata fuori da Eunucus, la commedia di Terenzio, è un monito che calza a pennello a chi ripara vetture tanto spesso disastrate. Poco distante, al numero 1 di piazza dei Cavalieri di Malta, il villino Sforza, oggi sede dell’ambasciatore arabo presso la Santa Sede, conferma la pace del colle Aventino con un Valetudo in solitudine (Nella solitudine si trova la salute).
Ed ecco la più suggestiva strada di Roma, l’appartata via di San Teodoro, tra i Fori, il Circo Massimo e il Palatino. Al n. 2 la palazzina Viggiano, medievaleggiante e voluta nel 1926 da Giovanna de Bauffremont di Sanfelice, due scritte ai lati del portone: Acta non verba (Fatti non parole) e Donec fata volent, ovvero “durerà (questa casa) finché vorrà il destino”.
Se Roma è il Tevere, andiamo a leggere le scritte dedicate al fiume. Viene celebrato nella scalinata che scende sul greto a Lungotevere Aventino. Si prendono qui versi dall’Eneide: Ego sum pleno quem flumine cernis/ stringentem ripas, et pinguia culta…. (“fiume gratissimo al cielo, io sono il ceruleo Tevere che tu vedi, rigurgitante d’acqua, premere le due sponde e attraversare i pingui campi. Qui la mia grande casa diventa capitale fra eccelse città”). Ma viene anche maledetto in una delle lapidi sulle piene che riempiono la facciata di Santa Maria Sopra Minerva, eretta nel punto più basso di Roma. Disastrosa quella del 24 dicembre 1598 che portò il papa a testimoniare: «Il pontefice Clemente VIII, al suo ritorno a Roma dopo il recupero di Ferrara, maledice i gorghi furoreggianti fino a questo segno, del Tevere, mai prima d’ora così superbo».
Infine, un’ode all’Urbs dal suo più innamorato cittadino. Fu Lorenzo Manili, ovvero lo speziale Rienzo Manei, che si cambiò nome per collegarsi alla Gens Manlia. A fine Quattrocento, sotto le finestre del primo piano della sua casa in via del Portico d’Ottavia n.1/2 fece incidere sul travertino: «Mentre Roma rinasce all’antico splendore, Lorenzo Manili, in segno di amore verso la sua città, costruì dalle fondamenta sulla piazza Giudea, in proporzione con le sue modeste possibilità, questa casa che dal suo cognome prende l’appellativo di Manliana, per sé e per i suoi discendenti, nell’anno 2221 dalla fondazione di Roma…». Pare che tanta passione civica fosse espressa per sostenere il potere municipale contro quello del Papa. La politica ci mette sempre lo zampino. Ma allora perlopiù riusciva a fare bella la città.