La voce del poeta: Roberta Bertozzi
Il vincolo della lingua
Cercando di evitare nel suo versificare ogni intenzionalità, la poetessa di Cesena si affida unicamente al linguaggio, rendendolo autonomo. Solo così è possibile far fronte a una realtà che si sottrae alla descrizione, a un presente che si nasconde…
Roberta Bertozzi, poetessa di Cesena, ha al suo attivo le raccolte Il rituale della neve (2003) e Gli enervati di Jumièges (96 pagine, 10 euro), pubblicata da Pequod nel 2007. Questo libro, che prende spunto dal dipinto eponimo di Evariste Vital Luminais, presenta diverse chiavi di lettura, essendo l’aspetto polisemico una delle sue caratteristiche principali. Uno dei temi più evidenti è quello del dissidio generazionale, manifestato attraverso la leggenda descritta dal pittore ottocentesco francese che vede contrapporsi al re Clodoveo II i due figli, rei di aver tramato contro di esso, e a cui, per punizione, furono bruciati i tendini e crudelmente abbandonati sopra una zattera alla deriva lungo la Senna. Da qui prende spunto l’investigazione della Bertozzi, tesa a privilegiare l’aspetto cognitivo, tra dialoghi beckettiani e atmosfere di taglio espressionistico che ricordano certo Bacon.
L’autrice romagnola, molto attiva anche sul versante critico, dirige una tra le più vitali riviste in circolazione, Edel, consacrata al rapporto di collaborazione tra poeti e artisti. Da anni sta preparando una nuova, attesa raccolta intitolata Blumen.
Mi sembra che la sua ultima raccolta, Gli enervati di Jumièges, si possa leggere a svariati livelli, privilegiando l’aspetto polisemico della stessa. Qual era il suo intento?
Nel mio caso più che d’intento parlerei di vincolo. Quando scrivo poesia cerco, per quanto è possibile, di non mettere alcuna intenzione in quello che faccio. Cerco di affidarmi unicamente al linguaggio, perché sento che esso contiene una forza inoltrante, di costruzione. Si tratta soltanto di come il poeta o l’artista decidono di posizionarsi rispetto all’opera. Penso a Rilke, che affermava di voler essere uno strumento cieco e puro al servizio della lingua, o ad Andy Warhol, quando sosteneva che il suo agire era in tutto simile a quello di una macchina.
La polisemia de Gli enervati deriva proprio da questa autonomia del linguaggio. Era ed è dettata dal vincolo che la lingua mi pone costantemente. Un vincolo oggi istituito anche dalla carenza di rappresentabilità, dall’avere a che fare con una realtà che si sottrae alla descrizione. In altri termini: come posso parlare del mio presente, di ciò che proprio a causa della sua immediatezza tende a nascondersi? Di qui la polisemia, che è l’incontro con un oggetto non in modo frontale ma per vie oblique, molteplici. Molto spesso per conoscere veramente qualcosa occorre aumentare la distanza da quel qualcosa, occorre, in certa misura, non esserne complici.
Le tematiche che lei tocca con Gli enervati di Jumièges sono quanto mai complesse e articolate: si passa dalla “società dello spettacolo” teorizzata da Debord all’insufficienza del linguaggio in un’epoca come la nostra, dominata dalle regole di un profitto sempre più deleterio.
Credo che la varietà tematica del libro possa essere ricondotta a un unico denominatore, a una sorta di motivo base: il fallimento del concetto di democrazia, così come questo concetto è stato concepito nella modernità. Lungo il poema questo fallimento si esplica nel rapporto padre-figli, nel mancato passaggio generazionale, nell’impossibilità dei due fratelli di assumere la posizione eretta – cioè in un difetto di responsabilità nei confronti della complessità del mondo. Il pre-testo è una leggenda nella quale si narra di un re francese che per impedire la salita al trono ai suoi discendenti fece recidere loro i tendini (di qui l’appellativo enervati). Mi sembrava una perfetta allegoria di ciò che è sotto gli occhi di tutti: la generale anestesia, anzi, la stanchezza cronica che pervade le nostre società, l’asservimento al benessere come unico orizzonte, uno spazio democratico in cui vige la tirannia del personalismo, in cui la fratellanza, come recita l’ultimo capitolo del libro, è “spaventata”…
Da anni lei sta lavorando a una nuova silloge, intitolata Blumen.
La suggestione iniziale mi è stata donata da alcuni versi di Hölderlin: «Prossimo è il Dio / e difficile è afferrarlo». Blumen, parola che in tedesco significa “fiori”, nasce proprio da questa percezione di una prossimità del sacro. L’inquadratura verte su quello specifico attimo, quel momento estatico, in cui qualcosa tra le pieghe di una situazione ordinaria sembra rivelarsi, attimo di cui credo ciascuno di noi abbia fatto più d’una volta in vita sua esperienza.Trattandosi di un movimento percettivo ho cercato di inseguirne le fasi, di isolarne le oscillazioni. E nel fare questo, di nuovo mi è venuta in soccorso la forma poematica, che proprio per il suo strutturarsi come un flusso è più vicina a quella specie di fuga temporale che caratterizza ogni variazione sensoria.
Lei cura una rivista, Edel, che cerca di coniugare l’arte visiva con il segno espresso dalla parola poetica.
Edel è principalmente una scommessa. È il tentativo di ridare vita a una koiné intellettuale, che coinvolga autori, artisti e critici. Il layout della rivista ricalca questa prospettiva: ogni numero contiene infatti sul retro un’opera manifesto in funzione di sintesi iconica dei contenuti. In tre anni di attività abbiamo esplorato diverse questioni che ci sembravano preminenti, restringendo, di volta in volta, il focus su un argomento specifico: dalla comunicazione al binomio realtà/rappresentazione, dalla possibilità di una lettura critica al concetto di paesaggio… La rivista si presenta come un oggetto ibrido, situato fra l’indagine analitica e la proposta operativa, l’opera d’arte e il suo racconto – dunque un osservatorio empirico, mobile, calibrato sulle sperimentazioni attuali e con la volontà di testimoniare quella responsabilità critica che accomuna il lavoro di chi opera nell’arte e insieme di chi se ne fa interprete. Edel cerca prima di ogni altra cosa di rispondere a questa urgenza di condivisione dei saperi per riposizionare il significato stesso del fare artistico all’interno dei nostri tempi – per poter tornare a esprimere un giudizio, una scelta.
Cosa pensa del connubio fra Internet e poesia?
Non ho un’idea precisa al proposito. La rete può essere un ottimo strumento di divulgazione, ma in molti casi può sortire l’effetto contrario. Ci sono sicuramente delle riviste serie, blog e siti su cui si discutono delle questioni essenziali. Ciò che non amo, e che mi frastorna sensibilmente, è la proliferazione, questa sì inessenziale, dei commenti. Non so se partecipare a un dibattito significhi necessariamente intervenire. Tra partecipazione e pura e semplice esibizione il confine è diventato piuttosto labile.
Quali sono i suoi autori di riferimento?
Poesia europea più che nostrana. Dei classici, su tutti l’avanguardia russa: Pasternak, Cvetaeva, Chlebnikov, Esenin. Quando scrivo mi tengo accanto Rilke e Hölderlin. Tornando all’Italia e per parlare dei contemporanei, sempre che abbia un senso usare questa categoria in poesia, direi Alessandro Ceni, un autore il cui stile e il cui linguaggio non ha precedenti nella nostra letteratura.
Cosa sta preparando attualmente?
Ora mi occupo prevalentemente di curatele critiche. Scrivo introduzioni per cataloghi e organizzo mostre. Con altri autori stiamo preparando la prossima uscita di Edel, che avrà per tema il rapporto tra arti sonore e arti visive.
Può commentare la poesia inedita presentata?
Fa parte della raccolta Blumen e ne rappresenta una delle stazioni. Trovo difficile offrire un commento di ciò che scrivo. Per dare un indizio, i due personaggi si trovano in macchina e stanno tornando a casa. Ma questo indizio ovviamente non dice nulla. In poesia non si tratta mai di circoscrivere un motivo o un fatto. Bisogna solo leggere, e nel modo il più possibile letterale. Solo così si viene trascinati in avanti, fino a un improvviso silenzio.
***
Credi a me. È solo questione di tempo
e accadrà di nuovo – dal limite celeste
o inferiore della carreggiata
si alzerà un vento, un laccio teso verso noi
lungo il tratto di strada restante.
Anche le mani si cercheranno,
in una reciproca consolazione – io al tre
pronuncio la parola fine
ed ecco allinearsi, una dopo l’altra
queste e le tante prime immagini
che si innestano nel nostro sguardo
come radici,
come filamenti duri e concreti.
Le vedi quelle luci gialle?
Vedi che ci siamo quasi?
disse, mentre cercava
in qualche direzione avanti
il seme astrale della casa.
So bene quel che sta per accadere,
come alle spinte improvvise d’aria e luce
ognuno accorda quanto ha di suo, e gli si sposta il cuore
spesso troppo presto.
Quando senza esitazione dirai di nuovo sì
a ogni laccio teso, dimenticando
o per l’ennesima volta fingendo di dimenticare
che ogni promessa si consuma interamente
nel suo annuncio.
Roberta Bertozzi