Pasquale Di Palmo
La voce del poeta: Alessandro Ceni

Il canto perpetuo

Un modo di procedere teso, per piccoli scarti, per approssimazioni, un versificare che sfugge e si nega «a un riscontro tangibile di lingua». Perché la poetica di Ceni, come le cose del mondo, è in perenne continuità e trasformazione

Una delle grandi scommesse della poesia novecentesca è stata quella di mettere in luce l’insufficienza della parola. Si pensi al caso di Paul Celan, la cui lirica si muove sul sottile discrimine che separa espressione e afasia. Su questa falsariga si può configurare la dimensione poetica di Alessandro Ceni, complessa, articolata, variegata, sempre alla ricerca dell’espressione più consona per asserire, come recita emblematicamente un suo verso, che «la difficoltà di parola è un canto perpetuo».
E da questo “canto perpetuo”, scaturito sin dagli anni Ottanta attraverso raccolte importanti – si pensi a I fiumi (1985), La natura delle cose (1991), Mattoni per l’altare del fuoco (2002), all’antologia La ricostruzione della casa (2012) e a Parlare chiuso, tuttelepoesie (2012), fino a Combattimento ininterrotto, edito da Effigie nel 2015, solo per citare qualche titolo –, sembra scaturire questa poesia tesa a procedere per piccoli scarti, per approssimazioni, in funzione di nuclei semantici che, come annota Daniele Piccini, sfuggono e si negano «a un riscontro tangibile di lingua, di impalcature formali, di modi».
E, se da un lato non sarà difficile rintracciare alcune influenze che hanno inciso sulla poetica di Ceni in maniera determinante – un certo ermetismo fiorentino come quello di Luzi o Bigongiari, con sullo sfondo la stella aristocratica di Landolfi, o gli addentellati profetici di Dylan Thomas – dall’altro non si può non riconoscergli un’impronta del tutto personale, che si risolve in esiti rigorosi e spigolosi, scevri come sono da ogni ostentazione autoreferenziale, essendo basati su un linguaggio aspro e dissonante che diventa l’oggetto stesso della sua investigazione gnoseologica. D’altro canto è difficile incasellare la poesia di Ceni in una particolare corrente, in quanto sfugge, per sua stessa natura, a ogni interpretazione troppo circostanziata o a ogni lettura che tenda a semplificare, banalizzandolo, l’aspetto polisemico insito in essa.
Per dirla ancora con le parole di Piccini, la lingua di Ceni «fuoriesce, esorbita dalle funzioni assegnate, impedisce ai significati di depositarsi e muove una peregrinazione fra le cose, i gorghi, i fianchi del mondo in perenne continuità e trasformazione». Il ricorso a neologismi, a frequenti storpiamenti sintattici, alla singolare sequenza degli accostamenti terminologici, laddove un vocabolo sembra nascere per assonanza o per contrasto da quello precedente, rinviano a una dimensione innaturale e straniante della storia. Non resta che la descrizione di erbe e ossa, viluppi vegetali e secrezioni – si vedano in questo senso anche i lavori artistici dell’autore fiorentino – dove il calco dell’uomo si deposita suscitando l’emblema del proprio scacco, della propria rovina.

La sua ultima raccolta si intitola Combattimento ininterrotto. A cosa si riferisce questo titolo?
cop CeniSostanzialmente, penso, si tratta della vita e nel caso di noi umani dell’esistenza. Anche se, o forse a ragione di questo, il combattimento lo si può leggere ad altri livelli: uno su tutti, l’inesausta lotta con la lingua e per essa.

Lei è un apprezzato traduttore dall’inglese che annovera tra le sue versioni lavori per le più importanti case editrici (Mondadori, Einaudi, Feltrinelli), tra cui la raccolta completa dei Racconti di Stevenson e il Moby Dick di Melville. Può parlarci di questa sua attività?
Innanzitutto si tratta di lavoro. Un lavoro molto duro e mal pagato (qui da noi, in Italia). Consente però a chi oltre che traduttore è poeta o scrittore di entrare nella materia, nella rete, nel gomitolo, nei gangli della lingua (quella da cui si traduce e la propria, e nel senso stesso del linguaggio); questo apre a una conoscenza assai raffinata, acuminata, di ogni possibile espressione atta a nominare le cose, all’idioma. Si agguanta il mondo, lo si vede.

Daniele Piccini ha scritto riguardo alla sua poesia: «Sono meccanismi, insieme alla costruzione di sequenze accumulatorie ed elencatorie, che tendono a sovvertire la semanticità della lingua».
Direi che Piccini ha centrato uno dei miei modi, una delle componenti (forse la più evidente) del mio stile (o del laboratorio). E, naturalmente, tramite quel mezzo ha messo in luce un aspetto significativo, di fondo, della mia visione.

Si è parlato spesso di vari autori toscani che hanno influenzato la sua poesia: da Luzi a Bigongiari. Che ricordo ha di loro?
Affetto. E ammirazione. In particolare per Bigongiari (per la sua poesia pensante), che ho conosciuto meglio di Luzi visto che è stato, tra l’altro, mio professore all’università (mi laureai con lui con una tesi monografica su Tommaso Landolfi) e che seguì con somma grazia i miei esordi.

Cosa pensa della diffusione della poesia sul web?
Niente di specifico. È un sistema come un altro affinché la poesia entri e giri. Personalmente non mi piace, perché non risponde a un’esigenza primaria: la poesia vuole la carta, il libro, il silenzio delle pagine; e un lettore alla volta (il rapporto poeta-lettore è intimo, sempre individuale, privato quasi). Come mi è già capitato di dire, ripeto qui che la poesia è “democratica” perché va verso tutti ma è in assoluto “aristocratica” perché non è per tutti (o di tutti).

Quali sono i suoi autori di riferimento?
Preferisco non indicare nomi scelti in merito al mio lavoro (altri lo hanno fatto per me assai bene in sede critica e a loro rimando), anche perché il termine “riferimento” secondo me è errato in poesia, e in ogni forma artistica a cui si attribuisca qualità autentica; penso sia meglio parlare di “assorbimento”. Posso comunque dire che, essendo onnivoro, c’è di tutto, quindi non soltanto poeti ma prosatori, narratori, pittori, musicisti, scultori, pensatori, testi di ricerca spirituale e, perché no, scientifica. Un poeta deve prendere ovunque e vivere diffusamente. Non è un letterato.

Cosa sta preparando attualmente?
Per la traduzione sto lavorando sull’Ulisse di Joyce. Per la poesia ho qualcosa di nuovo, pochissimo, giacché sono di una lentezza fuori dell’ordinario, cerco l’esasperazione per toccare il punto giusto (così per comporre e poi chiudere una sola poesia ci vogliono mesi e, talvolta, con sospensioni e soste e stasi e ritorni, anni).

Può commentare l’inedito proposto?
Ovviamente, com’è mia consuetudine, no.

 

***

 Ceni 

I campi davanti

Voltatoti,

le rovine fumanti

il pìare lento

il risolversi in un soffio del tarassaco:

 

revelle

stacca a forza

distoglie in altra parte:

 

la cupola del fieno

la portula che vi si apre

che ne camuffa un’altra

dove un flamine cieco ti tasta:

 

gli sconfitti – il tarassaco si china –

ottennero – il tarassaco si pela –

tutto quello per cui avevano combattuto:

 

ti sei supposito, ti sei sostituito,

ti sei detto il bambino brutto o bizzarro o anormale

lasciato in luogo di un altro rapito dalle fate:

 

voltatoti,

il rodìo che bucherella la cenere,

il reddito di una promessa,

l’asbesto.

Alessandro Ceni
(foto © Enzo Eric Toccaceli)

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