Lettera da Jakarta
Risiko islamico
L'Indonesia, con la sua tradizione "laica" e il suo recente boom economico è diventato il luogo in cui rischiano di scoppiare le contraddizioni tra chi usa l'islam a scopo politico e chi lo vive come uno strumento di nuova identità collettiva
Fattore Islamico in Indonesia. Sembra una formula ma non lo è. Il paese del Pancasila, della costituzione dell’armonia sociale, della comunità eterogenea è in pericolo. Lo testimoniano le difficoltà del presidente Joko Widodo (Jokowi) indebolito dalla perdita di uno sponsor internazionale come Obama, in uscita dalla Casa Bianca, e dalla fine della luna di miele col suo mentore nazionale, l’ex presidente e figlia del padre della nazione, Megawati Soekarnoputri. Lo dicono i più di un milione di musulmani scesi in piazza il 4 Novembre per una protesta e poi ancora il due Dicembre per una gigantesca preghiera collettiva. Iniziativa dai toni più contenuti rispetto alla precedente, come abbiamo potuto registrare direttamente (clicca qui per vedere il video). Le più grandi manifestazioni di piazza messe in piedi da organizzazioni musulmane, come il Front penbela islam (Fpi) ma anche nazionaliste e studentesche come il Hipunam mahassiswa islam (Hmi).
Indonesia eterogenea. Lo abbiamo potuto constatare personalmente scendendo nelle strade e nelle piazze della protesta, ufficialmente organizzata contro il governatore di Jakarta, Basuki Tjahaja Purnama detto Ahok, uomo del presidente Jokowi e in prima linea per la lotta alla corruzione. Pietra dello scandalo “ufficiale” alcune dichiarazioni “critiche”, secondo i suoi detrattori, verso il Corano. E che gli sono costate ad ora l’apertura di un procedimento penale per blasfemia. E tanto per non farsi mancare nulla c’è anche un clima da cospiracy politica. Si sarebbe tentato di cavalcare la protesta per scopi non del tutto trasparenti. Lo dicono le inchieste delle forze di sicurezza indonesiane che hanno messo in campo uno sforzo investigativo notevole. Militari e Polizia uniti nel difendere l’attuale governo. In pratica le prerogative di una “democrazia” faticosamente riconquistata dopo il lungo periodo dell’Orde baru (Ordine nuovo) del presidente Suharto – una sorta di decomunistizzazione del paese. Un passaggio verso un paese “normale” avvenuto nel 1998, non senza pagare un prezzo di sangue, costato morti anche tra gli studenti cattolici della capitale. Pancasila (5 principi, in giavanese antico) per capire questo paese servirebbe comprendere meglio il significato di questa parola. I cinque principi che reggono la nazione: un solo dio (Allah), umanesimo, unità, giustizia sociale e democrazia rappresentativa.
C’è un forte desiderio di riconoscimento dei musulmani, non solo nel Nusantara indonesiano, stretti tra due radicalismi: quello di un secolarismo arrugginito, alleato con una parte di globalismo “idiota” che sforna formule a volte indigeribili, da un lato e l’estremismo dell’islam letteralista, gonfiato dai petrodollari (per approfondire, clicca qui) che promuove un islam dogmatico, violento e intollerante, dall’altro. Il termine usato dagli ulama indonesiani, come Din Syamsuddin, presidente del MUI (Majelis Ulama Indonesia) per descivere questo islam è: “ortodossia”. E per sconfiggere questa ortodossia, che tra le altre cose rifiuta di riconoscere qualsiasi repubblica laica, servirebbe un movimento globale. Per rimettere al centro dell’islam elementi scomparsi nel tempo, come la metafisica e la filosofia e sconfiggere una declinazione leguleia della religione.
Il vero pericolo per un paese come l’Indonesia che ben rappresenta una cultura globalizzata e laica (almeno sulla carta) pur essendo a maggioranza musulmana è la facilità con cui si potrebbe far deflagrare la pace sociale, facendo leva sul sentimento religioso. Vediamo alcuni esempi, certamente non esaustivi, di questa realtà. Prendiamo la lingua, il bahasa, un mix di idiomi occidentali, arabi e indigeni, semplice nella struttura grammaticale come lo sono gli indonesiani nel loro modo di pensare ed agire; un altro esempio, il Natale celebrato anche a livello di comunicazione e “consumistico” come in un qualsiasi paese occidentale; l’approccio moderato a qualsiasi aspetto della vita, lavoro, e quindi anche nella religione. Tutti fattori che rendono unico questo paese, forte nella declinazione di uno sviluppo ben integrato col resto del mondo, debole se dovessero innescarsi conflitti identitari spinti dall’ideologia “supremazista” di un certo islam, che trasformerebbe alcuni punti di forza della società indonesiana in altrettanti bersagli da abbattere.
Le differenze economiche tra grandi centri urbanizzati e zone rurali potrebbero alimentare lo scontento sociale. In Indonesia è evidente il boom economico che ha permesso la nascita e la crescita di una middle class che ha sempre meno da invidiare a quella di molti paesi europei. Qui la globalizzazione ha “funzionato” – con eccessi e difetti, naturalmente – inserendosi, non si sa bene come, sopra una storica e pervasiva corruzione. Lo standard di vita è cresciuto. Soprattutto nella grande area metropolitana di Jakarta. Se ne parli con gli indonesiani, che poco o nulla sanno del drastico impoverimento della middle class in Europa e negli Usa, si lamentano anche, perché qualche anno fa si stava meglio. I dati della Banca mondiale (2014) mettono il paese al 16mo posto per pil (861 mld di usd) davanti al l’ex paese colonizzatore, l’Olanda e anche all’Arabia Saudita e solo tre posizioni dietro la Russia.
L’inchiesta
Partita immediatamente dopo la manifestazione del 4 Novembre, ha prodotto gli arresti a ridosso della seconda, quella di Dicembre. Nella notte della vigilia della seconda grande manifestazione di Monas, in pieno centro a Jakarta, sono scattati gli arresti. Per il capo della polizia di Jakarta, Mochamad Iriwan che ha retto le fila dell’inchiesta, non ci sarebbero dubbi: si tratta di “alto tradimento” nel tentativo di rovesciare l’attuale governo. Tutto gira intorno a uno spin off della protesta previsto proprio per il 2 Dicembre, quando un gruppo di 10/20mila persone avrebbe dovuto dirigersi verso Parlamento (Mpr) per chiedere il ripristino della Costituzione del 1945 (sono stati introdotti numerosi emendamenti, anche in materia di diritti umani). La Rachmawati si difende negando: «Abbiamo comunicato alla polizia l’intenzione di organizzare una protesta davanti al Parlamento (Mpr) il 30 Novembre». E rilanciando. «Vogliamo difendere il Pancasila ormai morto, ritornando alle origini della Carta del 1945, e la religione perseguendo il govenatore Ahok». L’inchiesta avrebbe tracciato movimenti finanziari sospetti ma di entità modesta. L’accusa è di aver pianificato un’occupazione per “forzare” il Parlamento a deliberare. Se sul piano penale le responsabilità sembrano scivolose, secondo la posizione garantista di Tempo, un settimanale che dovrebbe essere vicino a Jokowi, su quello politico le responsabilità ci sarebbero tutte. Gli ulama indonesiani, abbandonando per un attimo la caratteristica diplomazia e l’understatement, hanno sottolineato la “pericolosità” nell’innestare giochi politici sulla dinamica religiosa islamica. «Una follia».
Riducendo all’osso la visione garantista, invece, le norme del codice penale sull’alto tradimento, applicate in questo modo, potrebbero mettere a rischio qualsiasi attività politica, contravvenendo proprio lo spirito della Costituzione (1945) sulla libertà d’opinione. Non si processano le intenzioni. Il dissenso è una cosa, la ribellione un’altra. Un dibattito che spiega bene il livello di maturità politica raggiunto dall’Indonesia.
La “blasfemia” di Ahok
Il vicegovernatore diventato governatore, quando Jokowi vinse le presidenziali, a febbraio correrà di nuovo per questa poltrona. «Penso potrebbe vincere. Al tempo stesso credo possa essere condannato per blasfemia. La legge indonesiana non prevede che una tale condanna impedisca l’elezione», spiega Yannis Wahid, direttore della Wahid foundation, e figlia dell’ex presidente Abdurraman Wahid. I commenti galeotti sul Corano, secondo molte opinioni off record, sarebbero frutto di una certa superficialità del governatore nel maneggiare la issue islamica e di una certa ingenuità nel pensare che certi “errori” non sarebbero stati, presto o tardi, sfruttati politicamente. Lo scranno da governatore fa gola a troppi ed è un trampolino di lancio per la presidenza.
Gli esperti da salotto occidentali blaterano circa la laicità indonesiana, dimenticando che esistono la poligamia e l’accusa di blasfemia. Un errore di analisi tipico degli accademici abituati a norme, codici e supporti cartacei che dimenticano come norme e leggi si applicano in misura del contesto storico in cui i fatti accadono. Una costituzione laica prodotta nel secondo dopoguerra risentirà del clima della guerra fredda, del secolarismo imperante, della tendenza ideologica a considerare la religione un file chiuso. Una volta che questo contesto scompare e viene sostituito da un clima sociale, politico e religioso differente la forza dei codici vale se usi le baionette e fucili, come nel disgraziato caso egiziano. Altrimenti perde valore e consistenza, a meno con ci sia l’intelligenza politica di adeguare politica e religione alla “modernità”. È una sorta di letteralismo laico che si specchia in quello religioso, intrappolando nel mezzo la maggioranza delle persone che nel caso indonesiano sono moderati per natura.
A complicare la situazione indonesiana non sono solo i fattori interni, religiosi e politici. Cina e Stati Uniti sono prossimi a un confronto che potrebbe degenerare in conflitto. È uno scontro sistemico che lascia pochi margini alle rispettive élite politiche. Due giganti voraci di risorse. Due sistemi in grado di entropizzare il pianeta in poche decine di anni, se non cambiano modelli di sviluppo. Gli Usa, potenza marittima, per restare egemone deve continuare a controllare il traffico marittimo e tutti i choke point strategici, come lo Stretto di Malacca. La Cina per alimentare la fame di materie prime deve conquistare posizioni, in un settore che i tecnici chiamano “deep blue water”. Washington non può permetterlo. Di qui le continue crisi nel Mar Cinese Meridionale da cui transita il 70 per cento delle merci a livello mondiale. Quell’area si sta militarizzando. E l’Indonesia è proprio in mezzo, tra Singapore e l’Australia, con i suoi 5mila chilometri di isole da Ovest ad Est. Mutatis mutandis si sta tornando al clima da guerra fredda che costò la carriera politica a Soekarno, il padre della nazione e primo presidente. L’Indonesia diventerà presto un crocevia superaffollato di spie e interessi di ogni risma e servirà un governo con i nervi saldi per dirigere il traffico degli interessi internazionali e contemporaneamente promuovere gli interessi degli indonesiani.
Le riforme possibili
Ciò che hanno sottolineato in maniera chiara i rappresentanti degli ulema indonesiani è che ogni progetto di riforma dovrà partire da un movimento popolare che lo supporti. È una caratteristica del mondo musulmano che difficilmente riconosce leadership al di fuori dello speciale e diretto rapporto con Dio.
Conferenza islamica di Grozny (Settembre 2016) ha deciso di mettere fuori dal contesto sunnita il wahabismo. È un primo passo, ne serviranno altri. Soprattutto servirà stare al fianco di tutti i musulmani, organizzazioni e studiosi, che cercheranno di rimettere in moto il meccanismo delle riforme all’interno dell’islam (clicca qui per approfondire) tenendo bene a mente che i nemici di un tale processo, che porterebbe pace e prosperità, non si annidano solo nella cosiddetta “ortodossia” religiosa ma anche in una visione cinica della politica internazionale. Un punto di vista che preferirebbe che l’immagine del mondo musulmano rimanesse legata al wahabismo (e alle versioni violente del salafismo), al letteralismo che ha sempre portato al frazionamento ed a una intrinseca debolezza politica. Per loro, per questi gnomi di una declinazione indecente della politica i musulmani “brutti, violenti e cattivi” sono meglio di una umma moderna con cui venire a patti su basi paritarie. Questi esseri immondi si annidano dappertutto, specie in Occidente. Se ai musulmani verrà chiesto uno sforzo non indifferente per creare un movimento internazionale che porti verso un islam più “contestualizzato”, all’Occidente si domanderà di combattere al proprio interno queste lobby senz’anima e morale.
—–
Le foto sono di Pierre Chiartano