Periscopio (globale)
L’altra Brennan
Ritratto di Maeve Brennan a cento anni dalla nascita. Autrice di racconti fulminanti, è stata ammirata e venerata da scrittrici a lei successive come Alice Munro e Mavis Gallant
Nella storia letteraria del Novecento vi sono ben due Maeve Brennan: la prima è una bibliotecaria, collega e musa nonché amante, per ben diciotto anni, del poeta britannico Philip Larkin. A lei sono ispirate, fra l’altro, una fra le poesie più significative di Larkin, Broadcast, e il suo componimento più lungo (e incompiuto), The Dance.
Ma c’è anche, quasi in contemporanea, un’altra Maeve Brennan, sicuramente la più famosa delle due, una delle più importanti e acute scrittrici di racconti che la letteratura angloamericana possa annoverare, ammirata e venerata da scrittrici a lei successive come Alice Munro e Mavis Gallant, che alla sua opera si sono in qualche modo ispirate. La nostra Maeve nasce a Dublino esattamente cent’anni fa, il 6 gennaio 1917, dodici anni prima dell’omonima che non incontrerà mai, al 48 di Cherryfield Avenue, a pochi passi dalla casa dove Joyce fa abitare Leopold Bloom.
Figlia di Robert Brennan, un repubblicano irredentista irlandese che sarà fra i protagonisti della rivolta di Pasqua e diventerà poi il primo rappresentante della Repubblica d’Irlanda negli Stati Uniti, Maeve – il cui nome corrisponde in gaelico, come l’appellativo delle sorelle Emer e Deirdre, a quello di una principessa – seguirà la famiglia a Washington ad appena diciassette anni e sei anni più tardi, quando il padre rientrerà in patria, deciderà di trasferirsi a New York, anche per motivi sentimentali. La sua storia d’amore con lo scrittore e critico teatrale Walter Kerr non avrà però buon fine: Kerr la lascerà per sposare un’altra scrittrice, Jean, più tardi autrice di Please don’t eat the daisies (1957), fortunato romanzo pubblicato in Italia da Mondadori (Per piacere non mangiate le margherite) nella traduzione di Oreste Del Buono, da cui fu poi tratto un film interpretato da Doris Day e David Niven.
Finito l’idillio con Kerr, Maeve sceglie l’indipendenza e in un primo periodo lavora come bibliotecaria alla New York Public Library, cominciando a collaborare nel 1943 con la rivista Harper’s Bazaar. E’ il periodo di cui ci rimangono alcune foto, opera di Karl Bissinger, che ritraggono una donna bellissima, dai capelli scuri e gli occhi verdi, determinata e dall’eleganza sofisticata, sempre profumata di Chanel, di cui si diceva che fumasse in pubblico, dicesse le parolacce e bevesse liberamente e il cui effetto sugli uomini doveva essere dirompente. Nel 1949 è chiamata dal direttore, William Shawn, a far parte della redazione del New Yorker, al 25 West 43rd Street, dove comincia a scrivere delle recensioni, avendo quali “colleghi”, fra gli altri, William Maxwell, editor di grandi talenti come Salinger e Updike, che poi diventerà uno dei suoi migliori amici, e Wystan Hugh Auden. Per tutti gli anni Cinquanta avranno un enorme successo i suoi bozzetti su New York, basati su una grande capacità di osservazione fotografica, e Maeve diventerà un personaggio molto noto nell’ambiente, al punto che la sua biografa, Angela Bourke, ha potuto sostenere nel 2004, a torto o a ragione, che sia stata proprio lei il modello per il personaggio di Holly Golightly in Colazione da Tiffany (1958) di Truman Capote. Anche Capote, del resto, collaborava al New Yorker, e per di più Maeve lo conosceva già dai tempi dell’Harper’s Bazaar.
Durante la sua vita Maeve Brennan (nella foto) pubblicherà solo due raccolte di racconti (In and Out of Never-Never Land, nel 1969, e Christmas Eve, nel 1974), i migliori dei quali saranno sempre ambientati in Irlanda, mentre altre due raccolte, The Springs of Affection, del 1997, curata da Christopher Carduff e introdotta da William Maxwell, e The Rose Garden, del 2000, appariranno postume, così come il romanzo breve The Visitor, recuperato da un dattiloscritto trovato inedito nel 1997 all’Università di Notre Dame, nell’Indiana, l’unico scritto più ampio dell’autrice (un romanzo breve anziché un racconto). Ne è protagonista la ventiduenne Anastasia King che, orfana di entrambi i genitori, torna a vivere nella Dublino della sua infanzia con la nonna paterna, dopo essersi trasferita sei anni prima a Parigi con la madre, che aveva abbandonato il padre. A casa della nonna, anziché affetto, Anastasia trova però solo freddezza: la nonna attribuisce infatti la colpa della morte del figlio alla nuora e considera la giovane nipote corresponsabile nonché complice della madre.
Quanto ai racconti, i più significativi vedono come protagoniste due coppie, Rose e Hubert Derdon, da un lato, e Delia e Martin Bagot, dall’altro, che nel loro rapporto asfittico e distruttivo hanno peraltro molto in comune. I due matrimoni sono entrambi infelici, i personaggi risultano accartocciati su se stessi, incapaci di qualunque scatto d’orgoglio e carattere che potrebbe sottrarli all’anonimato e allo squallore. La descrizione che ne dà Maeve Brennan è clinica, spietata; Maxwell ne sottolinea giustamente non solo l’arte narrativa sopraffina, la qualità della prosa o il talento per il dialogo tagliente, ma anche e soprattutto l’abilità di “suggerire qualcosa di devastante in una frase apparentemente innocua”. Nella sua postfazione all’edizione italiana di alcuni racconti, raccolti con il titolo La sposa irlandese, da parte sua Elisabetta Rasy parla di “autoritratti anamorfici”, storie, cioè, in cui la scrittrice esamina con estrema precisione i pensieri e i turbamenti nascosti di persone che, al contrario di lei, sono toccate non dalla grazia (bellezza, fascino, notorietà), ma dalla disgrazia. Ma è proprio vero, ci si chiede, che a suo modo non lo fosse anche lei, e che anzi la disgrazia non la stesse covando con grande cura dentro di sé? Maeve era bellissima ed enigmatica, dicevamo, ma anche solitaria e vagabonda; la sua unione con St Clair McKelway, un collega di dodici anni più anziano di lei, al quarto matrimonio, s’infrange dopo appena un lustro sugli scogli dell’alcolismo e della depressione; le amicizie, molte ma spesso superficiali, vanno e vengono, con poche eccezioni, fra cui il citato Maxwell e la coppia formata da Gerald e Sara Murphy, che negli anni ’20 avevano conosciuto tutti gli scrittori americani a Parigi, tanto che si diceva che Gerald fosse stato il modello per la figura di Dick Diver in Tenera è la notte. Ma soprattutto Maeve spende e spande, passa da un alloggio all’altro (più stanze d’albergo che appartamenti, a dire il vero), pagandone spesso due o più allo stesso momento, incapace com’era di organizzare la propria vita, e portandosi dietro i suoi gatti e il suo labrador, e si ritrova alla fine piena di debiti e sempre più sradicata. Al punto che negli ultimi anni, dopo una crisi nervosa, sarà costretta a vivere della pietà degli editori del New Yorker (l’ultimo pezzo per la rivista lo scrive nel 1981), che le consentono di occuparne militarmente, con un lettino, uno specchio e un piccione malato che accudiva, i bagni femminili, nei quali vegeterà per un certo tempo. Per la precisione fino a quando i suoi atteggiamenti allucinati e aggressivi, dovuti all’avanzare della schizofrenia, non le alieneranno le simpatie del resto del personale (che per un periodo le aveva fatto avere persino i pasti) e costringeranno i proprietari dell’edificio ad allontanarla. A questo punto Maeve farà perdere le sue tracce per lungo tempo, e solo all’inizio degli anni Novanta sarà infine scovata da uno studioso in un ospizio di Long Island, dove muore poco dopo, all’età di settantasette anni.
Fra l’altro, l’occupazione pacifica della toilette delle signore Maeve l’aveva prefigurata molti anni prima nel profetico racconto The Holy Terror, uno dei primi pubblicati dal New Yorker, la cui intrigante protagonista, Mary Ramsay, governa la vita dei dipendenti di un hotel, il Royal di Dublino, dalle retrovie.
Su una parete del suo ufficio Maeve Brennan aveva affisso un cartello su cui campeggiava una frase di Yeats: “Soltanto ciò che non insegna, ciò che non chiede a gran voce, ciò che non convince, ciò che non accondiscende, ciò che non spiega, è irresistibile.” Sembra una dichiarazione d’intenti, o il lancio di un guanto di sfida. No, mi correggo, è solo la descrizione più vicina al vero dei suoi splendidi racconti.