Tra politica e globalizzazione
La società è finita
Il localismo politico che trionfa in questi anni non è che la negazione del concetto stesso di società e solidarietà. Come spiega la dottrina del filosofo (e poeta) canadese Bernard Charbonneau
Il localismo è da tempo divenuto una dottrina di filosofia – ed economia – politica, ma il suo più intimo nucleo può essere considerato prettamente sentimentale, e precisamente nostalgico. È la nostalgia dei piccoli luoghi ormai tutti scomparsi. Quando ancora esistono, sono infatti in realtà solo vuoti fantasmi. Perché la mitica del grande luogo ha ormai totalmente espugnato la convinzione del loro valore. E così ha anche annientato totalmente le forme e strutture nelle quali essa, esprimendosi, rendeva davvero vivo il piccolo luogo. Fisicamente, o anche solo virtualmente, viviamo oggi insomma ormai dappertutto in una grande città. La stessa intera superficie planetaria è così un’iper-mega-città. E la sua effettiva esistenza può essere colta e misurata nell’agire e nella consapevolezza di tutti noi, prima ancora che nelle sue pure evidenti forme esteriori. Questo è la Globalizzazione quale valore, penetrata ormai (anche se spesso in modo impercettibile) nella nostra generale consapevolezza.
Orbene, nel cuore e nell’anima di chi ha avuto la possibilità di vivere gli ultimi battiti del cuore di un vero piccolo luogo (cosa che oggi può dire solo chi ha da 60 anni in su), questa così vasta distruzione può evocare nostalgia e spesso cordoglio. Questo è il localismo nella sua dimensione più intima e profonda, ma proprio per questo anche più ampia e diffusa. Forse proprio sulla sua base si è formato e sviluppato il localismo dottrinario. Il quale oggi si presenta in diverse forme, talvolta anche contraddittorie. Esso è in gran parte un regionalismo politico, rivendicante il diritto di esistenza e auto-determinazione da parte di «patrie» quanto più piccole possibili. In negativo non è altro che il tradizionale campanilismo, o forse anche il populismo stesso. Tra le svariate altre forme (meno espressamente politiche), il localismo si manifesta poi come rivendicazione dei diritti di minoranze etnico-linguistiche, o come rivendicazione degli spazi municipali quali autentici luoghi di esercizio della libertà, o come rivendicazione dei diritti alla produzione di entità ristrettamente locali (vere e proprie minoranze agricole e/o artigiane), o come rivendicazione del diritto ad esistere incondizionatamente da parte della Vita-Natura nelle sue più estese e ramificate forme (contro la preponderanza della Civiltà). Una sua forma molto estrema è un nuovo libertarismo multiculturalista, radicalmente anti-liberal, che propone la differenza quale valore assoluto (contro l’unificazione oppressiva del Globalismo).
Ben rappresentativa del primo tipo localismo dottrinario (più decisamente politico) ci sembra comunque la scuola di pensiero formatasi a Montreal in ambito francofono (Bernard Charbonneau, Charles Gill, William Chapman, Albert Ferland). In particolare ci riferiamo alla dottrina esposta da Charbonneau nel suo libro dal titolo Il sistema e il caos (Arianna 1990). Proveremo dunque a sintetizzarne i punti forti ed alla fine ne menzioneremo il principale messaggio.
Lo studioso attacca frontalmente la moderna scienza, sottolineandone la totale indifferenza etica, il superomismo insensibile alle fondamentali esigenze umane, e la tendenza a sostituire le antiche verità religiose con una Verità unica ancora più dogmatica ed oppressiva. In forza di tutto questo la scienza di fatto uccide la vita delle cose, trasformandole così in oggetti indifferenti e pertanto «inumani». E così sottrae all’uomo quelle presenze spirituali mondane che proprio nel piccolo luogo civico (da sempre fedele al paradigma della polis) trovavano il loro intenso vissuto.
Peggio ancora quando si contemplano le conseguenze apportate dalla scienza come tecnica.
E qui il discorso si espande da un lato allo sviluppo progressivo del Capitalismo (fino al suo estremo assetto attuale) e dall’altro agli effetti prodotti dal Capitalismo stesso sulla struttura urbana. Come ben sottolineato anche da Mumford (Lewis Mumford, La città nella storia, Bompiani, Milano 1997), dal XIX secolo in poi la città diviene definitivamente (insieme all’intero mondo circostante) una rete infinita di comunicazioni che uniscono centri produttivi-amministrativi. Nasce cioè un mostruoso organismo, a metà tra animale e macchina, nella forma di un’infinita rete nervosa (di comando e distribuzione) i cui impulsi viaggiano per uno ed un solo scopo, la Produzione. Produzione che è poi essa stessa la forza propulsiva di ogni cosa, e quindi il criterio omni-giustificante. Nel linguaggio di Charbonneau questa è l’ «Organizzazione»; ossia una vasta ed omni-valente realtà corporea planetaria, in cui economia e politica si fondono intimamente (proprio così nasce l’economia politica come prassi e scienza fondamentale). Con la conseguenza che l’intera realtà umano-civica è chiamata ad operare costantemente in essa, secondo essa e per essa.
Ebbene è in tal contesto che trova realizzazione quello che può essere considerato il paradigma centrale della trasformazione da piccolo a grande luogo, e cioè la «moltiplicazione di cose».
È l’espansione infinita di qualcosa di limitato. Ed essa segue i dettami fondamentali della «religione del divenire» sostenuta dall’economia politica, cioè gli imperativi categorici del movimento e del cambiamento. In termini biologici si tratta dei fenomeni connessi dell’ipertrofia (aumento volumetrico della cellula) e dell’iperplasia (moltiplicazione della cellula).
Sono così gettate le basi per l’evoluzione in senso canceroso (e dunque incontrollatamente pleonastico) della struttura urbana. Ed al centro di tutto questo vi è l’interesse ormai ossessivo, morboso ed omni-valente per quegli aspetti economici dell’esistenza che antecedentemente (quando il piccolo luogo era davvero il principale spazio civico-politico) avevano un ruolo solo estremamente secondario, se non marginale (specie rispetto al «culto»). Più precisamente si tratta di un costante incremento di ricchezza, che non resta più nemmeno entro i limiti statici della «proprietà», ma si pone invece come un processo puramente dinamico, infinito ed esponenziale. Ed il suo guardiano è il capitalista trasformatosi ormai in economista politico, ossia Sacerdote della Finanza ed insieme consigliere del Principe. Anzi il Principe (il politico) è ormai appena suo organo esecutore.
L’espansione nella sua forma moltiplicativa trova ovviamente il suo riscontro nel sempre più vertiginoso consumo (vera e propria economia dello «spreco») di cose rigorosamente inutili.
Se non lo fossero, infatti, il processo si arresterebbe nella mera soddisfazione di veri (e non falsi) bisogni. Eccoci insomma di fronte al fenomeno della crescita, che Charbonneau risolve entro il cinico imperativo categorico del «crescere per sopravvivere». E qui il Sacerdote della Finanza si fa perfino pessimista, paventando così la minaccia di catastrofi se il mondo non si spinge ancor più ciecamente lungo il percorso da lui indicato. La ricetta prescritta è così quella dello stravolgimento ancora maggiore della vita umana (specie civico-locale) attraverso il riciclaggio e la flessibilità, ed attraverso una politica demografica finalizzata alle sole esigenze del Mercato Mondiale.
La trasformazione della società umana in un cieco e frenetico «termitaio» è ormai completa.
Svanisce dunque del tutto l’uomo (specie quello «morale e spirituale»), a vantaggio di un «uomo collettivo» o «superuomo», i cui interessi vengono rappresentati dall’«apparato collettivo» macchinico che a sua volta serve l’incessantemente Produzione. Ed il corrispettivo di ciò è una nuova ipertrofica e nervosa felicità tutta incentrata sulla liberazione da ogni forma di bisogno e di sforzo.
Soprattutto però ciò che si afferma è una dimensione «sociale» che non ha più nulla della vera «società»; in quanto è basata appena sulle fugaci e neutrali relazioni interne ad un Apparato esclusivamente economico e solo come tale civico-politico. Ciò che svanisce al suo interno è naturalmente il socialmente piccolo, ossia il ristretto («villaggio», «famiglia»). E ciò che domina è un’«unificazione» forzosa e totale, che poi altro non è se non l’atroce e cinico scimmiottamento di quell’«unità» che, saggiamente, le antiche società ritenevano possibile solo a livello divino, sovrannaturale ed escatologico. Così che esse vi rinunciavano in partenza. Il risultato di tale rinuncia era pertanto un mondo di piccolo luoghi, tra i quali si estendeva un sano vuoto privo di strutture, e che nel complesso costituiva il kósmos quale insieme di legittime differenze. Qui non vi era alcuna traccia della mostruosa iper-mega-città globale, autentica Città del Male e del Non-Senso, sostituitasi alla Civitas Dei.
Tuttavia Charbonneau ci avverte che anche tale così mostruosa ed artificiosa unità immanente è in realtà solo il primo segno di una trasformazione che attende ancora di pervenire ad un compimento davvero inimmaginabile, ossia la dissoluzione definitiva di ogni traccia di antico ordine perché si affermi infine il vero e proprio Ordine Nuovo. Ed è qui che lo studioso chiama tutti noi a raccolta con un appello drammatico: – «L’ordine di ieri non è più nostro e quello di domani non lo è ancora; possiamo considerare l’uno e l’altro dall’esterno. Siamo in una situazione eccezionale per dare un giudizio, se non identifichiamo questo stato di cose precario per la nostra libertà. Tocca a noi afferrarla; è tempo di farlo. Le nostre nuove catene saranno ancora più solide di quelle antiche, perché saranno forgiate dalla forza che le ha spezzate».
Ecco insomma l’anello di congiunzione tra localismo sentimentale e dottrinario. È certo che la perdita dei piccoli luoghi potrebbe giustificare un rifugiarsi del nostalgico nella loro contemplazione ormai solo puramente interiore. Ma ciò non è possibile, perché la posta in gioco è reale e peraltro mortalmente seria. Dunque proprio così il localismo sentimentale viene giustificato ma anche superato da un ben più sobrio localismo politico. Per il quale il piccolo luogo ha ancora un valore tangibile, nonostante esso sia svanito dalla storia.
Insomma, non si può solo fantasticare e soffrire. Si deve anche agire.
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Le immagini illustrato le ultime due edizioni del raduno leghista di Pontida