Tra linguistica e politica (non solo Usa)
Il sentimento trump
Trump, dall'inglese: carta vincente, inventare una scusa, peto. Una parola che esprime un'epoca: la fuffa del linguaggio, il peto della comunicazione. Insomma, più post-verità che populismo
Un sentimento si aggira per la contemporaneità e non aspetta altro che essere nominato e descritto. È il sentimento trump. Un certo modo di sentire gli eventi che accadono e i fenomeni che ci circondano; una certa atmosfera estetica che circola e si diffonde più o meno ovunque tra l’Europa e gli Stati Uniti. Possiamo parlare di un “sentire trump”, o anche di “fenomeni trump”. E dobbiamo farlo, all’ombra dell’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump di pochi giorni fa, per lanciare una scommessa su ciò che ci riserva il futuro anche al di là di questo evento elettorale, politico, geo-politico. Donald Trump non è che un caso, forse il più inaspettato e osteggiato, del trump. Altri eventi non meno significativi ci riguardano e ci aspettano e tutti hanno in comune questa atmosfera trump.
A prima vista, il “sentire trump” intercetta tutti gli eventi definiti formalmente dalla consultazione elettorale. Dovunque sia richiesto l’esercizio del voto, ecco apparire il trump. Eppure non si tratta di un sentimento politico. C’è del trump in qualsiasi competizione tra giocatori che sia mediata da strategie retoriche di persuasione e dissuasione. Diciamo allora che, dal “suffragio” al “referendum”, il trump attraversa qualsiasi forma istituzionalizzata di consultazione democratica. Il trump attraversa lo spazio politico e lo sorpassa. La singolarità del trump sta infatti nel suo coniugare un uso sistematicamente speculativo della comunicazione ad una vittoria schiacciante ma inaspettata, ovvero sistematicamente esclusa dalle previsioni. Ovunque i dispositivi elettorali, con la loro articolazione di pólemos e lógos, rapporti di forza e rapporti di senso, conflitto e linguaggio, cadono nella vertigine del trump perché questo sentimento, questa atmosfera, non è che l’indicatore dello scollamento abissale che si è aperto tra gli elettorati, o ciò che resta del démos, e il sistema delle istituzioni politico-mediatiche.
Nell’analizzare questi diversi fenomeni (Brexit, Presidenziali 2016, Referendum costituzionale, ecc.) molti commentatori hanno messo in gioco due categorie: il populismo e la post-verità. La prima appartiene alla storia politica: il populismo è un oggetto che appare solo allo sguardo del Parlamento, al regime di visibilità ritagliato da un sistema di Partiti in cooperazione-competizione democratica. In questo senso è un oggetto desueto. Certo, lo spazio politico contemporaneo è ancora occupato dalle figure dei Partiti e dei Parlamenti, ma sempre più spesso la logica democratico-parlamentare si è dimostrata simulativa, quando non del tutto inoperativa. Interpretare il trump come segnale di una deriva populista in Europa, negli Stati Uniti e nell’Occidente in generale, significa perderne la singolarità a vantaggio di un’interpretazione basata su categorie del passato.
La seconda categoria, quella di post-verità, ha un significato specifico nel mondo della comunicazione e del giornalismo 3.0. La post-verità allude all’impossibilità di eseguire il fact-checking e di verificare l’attendibilità della comunicazione in una fase in un cui diventa sempre più difficoltoso distinguere e legittimare gli attori della comunicazione (partecipatory journalism, open source journalism, ecc.). Ma una comunicazione che non sia capace di verificare la propria legittimità corre il rischio di influenzare in maniera non-trasparente i comportamenti sociali, compresi quelli elettorali. È questo il vero pericolo generato dalla crescita esponenziale, incontrollata e incontrollabile degli scambi comunicativi (es. big data). Nulla a che vedere con il gioco del falso. La post-verità non è né menzogna, né bufala, né teoria del complotto. È un effetto di non-senso, di rumore, di caos, di per sé del tutto involontario: l’indeterminazione dei criteri di verità della comunicazione nell’epoca dei big data.
Se il trump non ha nulla a che vedere con il populismo, ha invece qualcosa in comune con la post-verità. Ma cos’è questo sentire trump? Nell’inglese Usa e Uk, il sostantivo/verbo (to)trump è usato per indicare: a) la briscola, seme che comanda, la carta vincente, atout (to play your trump card) fig. arma vincente; b) battere, sconfiggere, surclassare (to trump); c) l’invenzione linguistica di una scusa (to trump up an excuse); d) peto, scoreggia, scoreggiare. In un gioco definito – es. competizione elettorale/referendaria – il trump è il seme che comanda, ovvero quello che definisce i valori e le posizioni di valore all’interno del gioco per un determinato turno o giro e per questo è anche la carta vincente. La sua vittoria non è quindi fraudolenta (come l’asso nella manica del baro), ma è schiacciante e inaspettata perché non è dato sapere in anticipo – e può essere difficile computare oltre una certa scala – chi sia in possesso della trump card. Il trump non è la vittoria, è la vertigine della vittoria e il sentimento schiacciante di godimento che si ha nel vincere in maniera assoluta. Ma il trump è anche speculazione comunicativa, rilancio enunciativo infinito, e in questo senso mette a profitto il carattere indefinitivamente inventivo, innovativo e creativo del linguaggio. In questo senso il trump è la fuffa del linguaggio, il peto della comunicazione. Il trump è aria, come si dice di qualcosa che non è altro che “aria fritta”: né informazione, né variazione rilevante (sintattica, semantica, pragmatica), ma il puro medium del linguaggio stesso, la parola per la parola. È il doppio senso della speculazione – scommessa e crescita infinita – che fa del trump il sentimento estetico corrispettivo della post-verità. Non è che il fascino di questa quando diviene la posta in gioco di una competizione vertiginosa. Col trump la comunicazione esce dai suoi cardini e la sua vittoria è senza risposta.
I fenomeni trump sono quei fenomeni sociali in cui ciò che resta del démos è chiamato ad esprimersi in uno spazio politico astratto e scollegato, ormai ritenuto governato da altri e impermeabile alle sue esigenze. Nel trump ci si esprime a favore della vertigine, puntando tutto sul valore più forte e sull’uso più speculativo e irreferenziale del linguaggio, indipendentemente dalla conseguenze. Il sentire trump è la fascinazione per questo effetto di vertigine, la seduzione per la vittoria schiacciante quanto inaspettata, il godimento di aver partecipato alla vittoria dell’opzione esclusa dai media e dagli esperti (Trump, Brexit, No). Forse, una qualche forma di goduria dell’abiezione. Ciò che resta del démos gode di non essere altro da ciò cui il sistema lo ha ridotto: un resto.