La voce del poeta: Domenico Brancale
Dentro la parola
Scrittura come forma di cura, tentativo di alleviare il dolore che la vita c’infligge a partire delle nostre azioni. Ma a costo, per l'autore lucano, di un corpo a corpo con il logos che dà luogo alla musicalità di una “voce ustionata”…
«Non sono mai al sicuro dentro la parola». Questo verso isolato, messo in esergo alla raccolta L’ossario del sole, pubblicata nel 2007, si configura come paradigmatico della stessa dimensione poetica di Domenico Brancale. Una sorta di incessante corpo a corpo si instaura con il logos, con la parola, creando un senso di sospensione, di precarietà, di spaesamento dal quale il lettore si sente attanagliato. Già Michele Ranchetti aveva sottolineato come le liriche di Brancale somiglino a quelle pietre che, scagliate con violenza nell’acqua, riaffiorano a più riprese prima di scomparire nel fondo. E certo il modello isolato di Ranchetti non può che rapportarsi in maniera quanto mai tangibile all’opera dell’autore lucano, anche se l’impressione è che, con l’uscita di Incerti umani (88 pagine, 12 euro), pubblicato da Passigli nel 2013, si operi uno scarto decisivo rispetto alle raccolte precedenti.
A differenza del frammentismo gratuito che domina la scena poetica di questi decenni, le sequenze di Brancale si caratterizzano per la pregnanza di un senso che spesso sfugge ma che è percepibile, presente, innestandosi nel tessuto di una musicalità franta, di una «voce (…) ustionata», come suggerisce lo stesso autore in una lirica di Incerti umani. Siamo dunque in presenza di un caso atipico nel panorama poetico attuale, in cui la sprezzatura formale e, se così possiamo esprimerci, contenutistica si rapporta alle composizioni in maniera pressoché necessaria e senza alcunché di artificioso o esibito. Non è un caso che uno dei simboli ricorrenti sia proprio quello del gelo, il cui segno si delinea sulla pagina con esiti incisivi, pur nell’informità del loro diverso evolversi. Parole come cristalli di ghiaccio, scavate «nello scafo del cuore». Luce e ombra convivono e si contrappongono in una sorta di felice quanto irrisolta simbiosi. Un senso di canicolare insoddisfazione attraversa queste pagine, sfinendo lo scheletro del linguaggio avvinghiato al «lungosenna del volto». La metafora della luce benevola e, al tempo stesso, opprimente si ricollega all’opera di Albino Pierro, da cui sembrano idealmente derivare quegli scarti improvvisi come unghiate che lacerano il sipario di un cielo troppo uniforme, «di orme scavate nell’aria». Ma su tutto prevale la dimensione dell’autenticità che, nell’epoca disarmante della serialità e della globalizzazione, recupera l’atto manuale, «ustorio» della creazione, rubandolo, al pari di Prometeo, avventatamente agli dèi.
In una lirica di Incerti umani si legge che la voce è «ustionata». Non pensa che un tale assunto possa essere valido per la sua opera poetica?
In qualche modo sì. La nostra voce è il risultato di ciò che pronunciamo e ascoltiamo. Una continua esposizione della voce a determinate parole provoca ustioni. La voce è lesione, ferita sempre viva. La scrittura è una forma di cura, un tentativo di alleviare il dolore che la vita c’infligge a partire delle nostre azioni. Tentativi per lo più nella mia vita risultati fallimentari. Ma senza tutto ciò, non potremmo esporci al miracolo dell’esistenza. E forse solo il silenzio può mettere la parola fine al libro delle nostre illusioni, se mai ce ne fossero ancora.
La sua produzione comprende testi sia in lingua sia in dialetto. Può darci un ragguaglio sul suo dialetto?
Il dialetto è la lingua della mia infanzia, i primi passi della voce li ho compiuti in dialetto. Il dialetto è voce orale per eccellenza. Il dialetto è la lingua dell’istante. Il dialetto non pensa. Accade. Mi verrebbe da dire che ogni uomo ha in fondo a sé una lingua propria – intima, un dialetto dell’anima. Ma ritornando alla sua domanda specifica, a un certo punto della mia vita il dialetto mi ha soccorso. Per scrivere avevo bisogno di ripartire proprio da quella lingua. E soprattutto credo che per scrivere ciò che avrei voluto dire non potevo fare altrimenti. Il burrone sarà sempre ’a garamme, l’agave u scannaciucce, la ferita u jacc, e così via. Così sono nati i miei primi libretti. Così la lingua di un piccolo paese della Lucania continua a balbettare dentro di me, a farsi paesaggio, a vivere dietro il mio respiro.
Lei lavora presso la galleria d’arte veneziana di Hervé Bordas. Quanto ha influito la frequentazione con gli artisti nel suo particolare procedimento poetico?
Tantissimo. Più che lavoro, quella con Hervé Bordas è una collaborazione nata prima di tutto con un libro d’artista: Canti affilati. La prima volta che ho visitato la Galerie Bordas a Venezia ho sentito immediatamente di essere a casa, una casa dove non ero mai stato ma di cui riconoscevo gli interni. Gli interni sono le opere d’arte da cui poter fuoriuscire da me stesso. Comunque nel corso degli anni ho avuto modo d’incontrare una serie di artisti dai quali ho attinto continuamente. Ci sono momenti nella scrittura in cui mi sento scultore. Scrivere è scolpire il proprio corpo, cercare il proprio granello.
Come si intitola la sua prossima raccolta e quando uscirà?
Il mio prossimo libro intitolato Per diverse ragioni dovrebbe uscire per Passigli nei primi mesi del 2017.
Quali sono i suoi autori di riferimento?
Fino a un certo punto della mia vita gli autori di riferimento sono stati l’argilla, le agavi, gli eucalipti, i nibbi. La mia prima biblioteca è fatta da loro che non smettono di parlarmi. Un po’ come accade con i presocratici. Poi sono venuti Dylan Thomas, Ungaretti, Edmond Jabès, Marina Cvetaeva, Paul Celan, Henri Michaux, César Vallejo, Alejandra Pizarnik. Ogni incontro ha qualcosa di speciale, e probabilmente ci sono altri poeti che mi hanno profondamente segnato più di quanto io possa immaginare.
Lei è spesso in contatto con autori di altri paesi. Quali sono quelli che l’hanno maggiormente colpita?
John Giorno, Daniel Pommereulle, Claude Royet-Journoud. Tra loro differenti, così pure da me. Eppure proprio in quella distanza, in quello scarto ho trovato una vicinanza profonda e inaspettata. Pommereulle l’avrò incontrato due volte e sono bastate poche parole per dirci tutto. Essere riconosciuti da un’altra anima è una delle cose più affascinanti che possa capitare a un essere umano. John Giorno l’ho incontrato quasi vent’anni fa, abbiamo viaggiato insieme a lungo. Da lui ho appreso a stare in scena. Un vero performer capace di sfondare lo spazio. Royet-Journoud, di cui ho tradotto un libro Le nature indivisibili appena uscito nella nuova collana “Le Meteore” per Effigie, mi ha convinto ancor di più, che solo la parola che ascolta può parlare.
È stata inaugurata per Effigie Edizioni una nuova collana di traduzioni poetiche, curata da lei e da Anna Ruchat. Quali sono al riguardo i vostri intendimenti?
La stima e l’amicizia che mi legano ad Anna Ruchat sono frutto di un dono che anni fa Michele Ranchetti fece a entrambi. Ma, in realtà, l’avevo già incontrata leggendo le sue traduzioni di Thomas Bernhard, Mariella Mehr, Ludwig Hohl. E continuo a incontrarla in ogni parola, in ogni verso che trasportiamo da una lingua all’altra. Ho l’impressione grazie a lei di conoscere la lingua tedesca senza conoscerla veramente, e questo direi non è poco. La delicatezza con cui Anna Ruchat si avvicina a un testo è impressionante. Come non si può non collaborare con una persona così!
Può commentare la poesia inedita presentata?
Preferirei di no!
***
nei muri il respiro dei malati apre le crepe
tutto, prima o poi, si dischiude
fuoriesce dentro il sempre
incatena ognuno alla propria voce
qualcuno lo teme
un altro lo invoca
nessuno ci tiene
dice il vero chi dice oramai
dice tutto chi morde il silenzio
Domenico Brancale
(foto © heloise faure)