Visto all'Astra di Torino
Da Büchner a Jarry
Cesare Lievi ripropone "Leonce e Lena” di Georg Büchner e ne fa una sorta di parodia di Amleto, rendendo omaggio alle avanguardie storiche (non solo teatrali), da Jarry a Malevic
Georg Büchner, lo scrittore tedesco morto a ventiquattro anni nel 1837, gode un improvviso ritorno di fama, qui da noi: lo scorso anno Mario Martone ha messo in scena il suo mastodontico, malfermo e irrisolto Morte di Danton allo Stabile di Torino, ora Cesare Lievi ripropone la favola di Leonce e Lena sempre a Torino, ma all’Astra, con la produzione della Fondazione Teatro Piemonte Europa. Del resto, la stessa Fondazione Tpe di recente aveva allestito Woyzeck, stavolta con la regìa di Emiliano Bronzino. Insomma, c’è qualcosa che affascina, nel mito romantico di Büchner, nella sua brevissima parabola creativa e nel suo appassionato anticonformismo: una sorta di manifesto del giovanilismo di ogni epoca che trascolora in denuncia politica contro la banalità della corruzione (soprattutto nei rapporti umani).
Leonce e Lena è una favola, dichiaratamente: protagonisti sono due principi (quelli del titolo) destinati a sposarsi dalle rispettive ragioni di Stato e che, per sfuggire questo destino, abbandonano le loro corti in cerca di vera vita e vero amore. Salvo che, senza sapere nulla l’uno dell’altro, si incontrano e si innamorano, compiendo il destino di quel potere che pure volevano contraddire.
Cesare Lievi ha realizzato, da questo difficile materiale drammaturgico (il linguaggio di Büchner ha una vena poetica che lo rende assai complesso all’ascolto), una importante regia critica. Ossia: ha fornito di Leonce e Lena un’idea interpretativa di grande interesse (per altro curando in prima persona la traduzione del copione originale). Spingendo sul pedale della parodia più che su quello della favola, il traduttore e regista ha messo in scena quasi un antesignano di Ubu re di Jarry (per paradosso, e seppure a quasi mezzo secolo di distanza, la temperie creativa è simile): una buffoneria sul potere condotta forzando gli strumenti tradizionali della fiaba. Ma al tempo stesso, ha collegato Büchner alle avanguardie del primo Novecento in modo netto: al loro ritorno a corte per il matrimonio, Leonce e Lena sono vestiti come due manichini di Malevic che si agitano in una scenografia semplice e geometrica (scene e costumi di Marina Luxardo) che ha qualcosa del suprematismo russo. La vicenda dei due amanti che giocano ad apparire pazzi per vicendevolmente sfuggire le trame del potere intorno al loro amore, poi, è condotta quasi come una parodia di Amleto (nel modo in cui Jarry dichiaratamente parodiava Macbeth di Shakespeare): e il personaggio di Valerio, il servo di Leonce, finisce per mostrare in controluce i caratteri di Polonio, metà politico intrigante e metà buffone di corte.
Insomma, uno spettacolo di sicuro spessore critico (d’altra parte Cesare Lievi è uno degli ultimi rappresentanti del grande teatro di regìa europeo) cui le musiche spumeggianti di Germano Mazzocchetti e lo straniamento comico di Gianluigi Pizzetti (che interpreta il re del Regno di Popo, padre di Leonce) forniscono un indispensabile contraltare da commedia. Lorenzo Gleijeses e Maria Alberta Navello interpretano i difficili ruoli del titolo, e sono come due Peter Pan che non sanno (o non vogliono) crescere; mentre Paolo Garghentino è Valerio, ossia il personaggio più difficile della banda. Nel complesso, è una compagnia giovane e vitale, che si avvale anche di Marcella Favilla, Matteo Romoli, Andrea Romero, Riccardo Forte, Riccardo De Leo e Vincenzo Paterna. Le musiche sono eseguite dal vivo da Mimmo Mirabelli e Simone Campa.