A proposito de "Lo spregio”
Angelo e l’Arcangelo
Tra malavita e riflessioni sul sacro, il nuovo romanzo di Alessandro Zaccuri esplora la frontiera che separa padri e figli. Con qualche danno per i figli per i quali il peccato diventa una tragedia
«Tutto è male» dice il Leopardi dello Zibaldone. «Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno/ appare in vista, a salutar m’affaccio» dice il Leopardi de La sera del dì di festa. L’uomo è identico: il pensiero filosofico e il pensiero lirico cambiano. La poesia muta la disperazione in pianto, la tragedia in nostalgia, il dolore in più acuta consapevolezza e, se vogliamo, in un amore più adulto. La poesia non disconosce l’aspetto terribile della realtà, né lo distorce: lo fa evolvere. Tutto si trasforma, come afferma la famosa legge di Lavoisier.
Alessandro Zaccuri, giornalista di Avvenire e apprezzato romanziere, il cui esordio nella narrativa è legato proprio alla figura del poeta recanatese (Il signor figlio, Mondadori 2007, Premio Campiello – Selezione Giuria dei Letterati), tiene bene a mente il discrimine ellenico – e leopardiano – tra orrore e metamorfosi dell’orrore, ma annodandolo al filo biblico del rapporto padre/figlio. Il suo nuovo romanzo, Lo spregio (Marsilio, pp. 120, 16 euro), raggiunge la misura cristallina della prosa breve, a metà strada tra lirismo e ragionamento analitico. La prospettiva etico-religiosa, nella quale silentemente l’autore spezzino affonda il tessuto descrittivo, ricorda alcuni passaggi di Timore e tremore, soprattutto quando Kierkegaard solleva la questione del dovere assoluto verso Dio. Esiste una traccia divina dentro di noi, alla quale è impossibile rinunciare? Sì e, con Eckhart, si può asserire che la si attesta più marcatamente negandola. Il grande insegnamento della tragedia greca è forse in questa continua trasmutazione della sofferenza, la quale, nel caso di Edipo ad esempio, si risolve nella riabilitazione e nella gloria a Colono. L’antico sembra cambiato definitivamente. La sparizione, il confondimento nelle cose e il nuovo nascimento: tutto questo è alethia, verità, il non nascondersi o il nascondersi parziale, dunque lo svelarsi della radura, quella Lichtung che Heidegger accostava, nel suo gioco di luce e oscurità, al modo di essere dell’essere in quanto luminoso celarsi.
Lo “spregio” coincide, dunque, con l’effetto di questa furibonda lotta tra luce e tenebra, dicotomia ineliminabile, che Woland, parlando con Levi Matteo, definisce così ne Il Maestro e Margherita: «Che cosa farebbe il tuo bene, se non esistesse il male? E come apparirebbe la terra, se ne sparissero le ombre? Le ombre provengono dagli uomini e dalle cose. Ecco l’ombra della mia spada. Ma ci sono le ombre degli alberi e degli esseri viventi. Vuoi forse scorticare tutto il globo terrestre, portandogli via tutti gli alberi e tutto quanto c’è di vivo per il tuo capriccio di goderti la luce nuda?».
Il protagonista de Lo spregio, Angelo, vive in un piccolo paese del comasco al confine con la Svizzera. Suo padre, Franco Morelli «che tutti al paese chiamavano il Moro», gestisce una locanda, come paravento di una serie di traffici illeciti. Il Moro è un tipo schivo, anaffettivo, ma profondamente innamorato del figlio, al quale ha taciuto la verità sulla sua nascita: egli è un trovatello. Il tema edipico affiora leggermente. L’uomo ha sposato Giustina, la cameriera del ristorante, pur non amandola, per il solo fatto di poter tenere con sé questo bambino. Angelo venera il padre, anche dopo aver scoperto la sua reale vita, fatta di soldi con il contrabbando e la prostituzione. Decide di essere come lui, anzi di essere meglio di lui. In questa folle corsa all’amoralità incontra Salvo, il quale con il padre Don Ciccio e i suoi fratelli maggiori – tutti esponenti della malavita – vive in un esilio forzato al nord. Tra i due ragazzi nascerà un legame di amicizia, spezzato dallo spregio che Angelo userà nei confronti di Salvo: un peccato di hybris che sarà punito nella maniera più crudele possibile.
A questo racconto secco, lucido, durissimo, il cui timbro stilistico è modulato secondo la tecnica cecoviana del desumere la realtà dai fatti, Zaccuri alterna riflessioni di carattere trascendente, spesso sorprendenti, relative alla battaglia interiore tra San Michele Arcangelo e satana per il possesso di un’anima. «Per essere un angelo era ben strano, eppure non sembrava un diavolo. Era come se quella creatura raffigurasse l’attimo in cui Michele e Lucifero si erano avvinghiati l’uno all’altro, nel cuore della battaglia. Era il momento in cui la vittoria era ancora incerta e l’Arcangelo lottava per non essere sopraffatto, o assimilato, al demone». La credenza popolare si mescola con la più evidente certezza dell’alternarsi continuo tra possibilità di puro bene e male feroce, che assumono, nel confondimento, l’immobilità della statua. Subentra il mistero del libero arbitrio fino all’ultimo istante, in oscillazione perpetua con la costrizione della Tyche, in questa storia che ben può definirsi come romanzo dei dualismi. Il profeta Amos, nel libro omonimo, parlando del tema della salvezza, dice che «come un pastore salva dalla gola del leone due zampe o un brandello d’orecchio, così saranno salvati i figli d’Israele». Ciò che al Moro rimane del figlio è appunto un brandello, un resto che perpetua il suo amore paterno verso di lui.
«Padre e figlio restarono uno di fronte all’altro. Conoscendo il Moro, ci si poteva immaginare una sfuriata. Non andò così. Si fissarono negli occhi fino a stancarsi. Grigio nel grigio, un solo specchio che per incanto riflette se stesso». Giustamente è stato detto che lo “spregio” risiede essenzialmente nel rapporto asimmetrico tra il mondo dei padri e il mondo dei figli. Zaccuri amplia la sua riflessione sul tema aggiungendo il gradiente del peccato originale, che si rivolta scientemente contro coloro che lo hanno suscitato. A questo proposito non può non figurare nel risguardo del libro la figura di Smerdjakov, figlio illegittimo di Fëdor Pavlovic Karamazov, che entra in collisione – insieme con ognuno degli altri fratelli – con l’amato/odiato genitore, tentando di distruggere, una volta per tutte, il mondo dei padri. Di recidere il contatto della colpa. Invece di morire sacrificandosi, come il chicco di grano che dà frutto, in un mondo di padri e di figli per rinascere in un unico mondo di uomini.
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Accanto al titolo: Giorgio de Chirico, «Manichini in riva al mare», 1925-26