Every beat of my heart, la poesia
Un istante per sempre
Come Shakespeare, Goethe e Luzi, anche Peter Handke percepisce l’inesorabile brevità del miracolo, la necessità di dilatare la perfezione dell'attimo. Avvertita «nei primi segni di primavera alla Fontaine Sainte-Marie, nel vento notturno delle Porte d’Auteuil, nel sole estivo del Carso»
Definito perfettamente dal curatore dell’edizione italiana “poemetto epico-filosofico” il Canto della durata di Peter Handke è un libro di poesia molto importante. Innanzitutto per la sua natura di poemetto, in cui la durata è realtà costitutiva. Inoltre perché propone in forma affascinante il rapporto tra poesia e essere, in una tesa, vibrante ricerca del senso ultimo del tempo.
«La mia pena è durare oltre quest’attimo»: il leggendario verso di Mario Luzi coglie l’eternità fissata in un istante e di colpo fatta perenne: dilatazione del presente, l’opposto di una fuga dal presente che nella poesia sarebbe rinuncia o scacco.
Quando Handke scrive che quel giorno, provando una sensazione di pienezza capiva «che al miracolo mancava la durata», non manifesta una visione opposta: in poesia il principio aristotelico di non contraddizione non esiste. È alchemica la logica del poeta. Un miracolo senza durata è simile all’illusione, attimica. Se ben comprendo il poeta austriaco, e mi viene alla mente il grido di Orazio sugli spalti di Elsinore, all’apparizione, dalle guardie temuta e prevista, del fantasma del re morto: «Stay, imagine!». Fermati, immagine! Non svanire, non dissolverti, fa’ che sia vero ciò che appare, e che abbia sostanza il puro visibile.
Anche Handke, come Luzi cerca la dilatazione dell’istante: non nella sua rivelazione attimica, secondo la linea neoplatonica Coleridge-Yeats-Luzi, ma in una dimensione distesa, di dilatazione del tempo, secondo la lezione del maestro e ispiratore riconosciuto da Handke, il grande Goethe.
Chi leggerà questo importante poemetto resterà colpito, se non sto sbagliando, anche dalla consonanza con un certo senso del tempo di Orazio (che però si svolge sul piano profano, Goethe e Handke sono metafisici volenti o nolenti), e affinità stilistiche, dal curatore notate, con il poema La camera da letto di Bertolucci (poema, ma non epico).
Di questo libro, Canto della durata, è fondamentale la data di nascita: 1986. Un anno dopo il mondo vedrà accendersi nelle sale cinematografiche Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders, il film che muta la prospettiva e lo sguardo di finesecolo. Handke, in quel 1986, sta collaborando, o ha appena finito di collaborare, alla scrittura del soggetto e sceneggiatura del film, con il grande regista. Leggendo questi versi scorrenti sul panorama del mondo, ci pare di sentire il primo angelo che parla, dalle guglie della cattedrale di Berlino, cercando il suo posto nel tempo presente.
È da tanto che voglio scrivere qualcosa sulla durata,
non un saggio, non un testo teatrale, non una storia –
la durata induce alla poesia.
Voglio interrogarmi con un canto,
voglio ricordare con un canto, dire e affidare a un canto
cos’è la durata.
Quante volte ho avvertito la durata
nei primi segni di primavera alla Fontaine Sainte-Marie,
nel vento notturno delle Porte d’Auteuil,
nel sole estivo del Carso,
nell’incamminarmi all’alba verso una casa dopo un’intesa.
Quel senso di durata, cos’era?
Era un periodo di tempo?
Qualcosa di misurabile? Una certezza?
No, la durata era una sensazione,
la più fugace di tutte le sensazioni,
spesso più veloce di un attimo,
non prevedibile, non controllabile,
inafferrabile, non misurabile.
Eppure con il suo aiuto
avrei potuto affrontare sorridendo ogni avversario
e disarmarlo
e se mi considerava un uomo malvagio
l’avrei convinto a pensare:
“Egli è buono!”
e se esistesse un Dio
sarei stato io la sua creatura
finché provavo quella sensazione della durata.
Peter Handke
(Da Canto alla durata, Einaudi editore, traduzione di Hans Kitzmuller)