Visto al teatro dell'Orologio di Roma
Un anti-Natale
«Porcomondo” di Francesca Macrì e Andrea Trapani è un apologo inquietante sull'Occidente precipitato nel vuoto, la notte di Natale... Un incubo del quale siamo tutti protagonisti
Una coppia normalmente alienata, la notte di Natale, mentre fuori nevica. Sono i protagonisti senza nome di Porcomondo, spettacolo di Biancofango (Francesca Macrì e Andrea Trapani) da anni in giro per l’Italia e ora a Roma, al Teatro dell’Orologio per una settimana di repliche. Uno spettacolo di forte impatto emotivo per via della inquietante, lineare vacuità dei due protagonisti senza nome (sono se stessi e chiunque al tempo stesso: un uomo e una donna tipici di questo nostro Occidente debosciato e al tramonto). Lui (in scena Andrea Trapani, bravo) s’emoziona solo in una chat porno con una tredicenne che gli promette sogni a rovescio; ma ha sempre un nemico pronto in quei «porci» che vivono sugli argini del fiume: forse sono stranieri, forse sono giovani avanzi della cultura hippy dei nonni, comunque lui vorrebbe ucciderli. Oppure in realtà ne invidia l’essere fuori dal mondo e fuori dal tempo. Lei (Aida Talliente, di grande intensità) rimpiange la giovinezza, si vorrebbe bionda come Marilyn e da decenni cova odio per una compagna di classe che rimorchiava tutti. Miriam, si chiamava: «Che nome stupido!». È l’unico nome proprio di persona che venga pronunciato in poco meno di un’ora di spettacolo. Proprio a sottolineare che lì sulla scena ci siamo tutti noi, non una coppia speciale.
I due non hanno più alcunché da darsi o da spartire nella vita quotidiana: desideri e passioni, ammesso che ancora ne abbiano, si rivolgono altrove. Anzi risultano menomati da quella convivenza: loro, almeno, preferiscono pensarla così, piuttosto che affrontare il proprio fallimento precipitato nell’abiezione. Lui chatta con la bambina, lei si ubriaca. È uno spettacolo molto carnale, fisico: se la rabbia dei due si consuma su un panettone (siamo pur sempre a Natale!) sbriciolato nel nulla come metafora di un’opulenza sprecata, lei si scola, materialmente, una bottiglia di prosecco (happy Christmas!). Tutto avviene in uno spazio vuoto (come la mente dei protagonisti, come le nostre stesse vite) illuminato quasi fosse un sotterraneo della metropolitana: la contrapposizione tra questo spazio metaforico e la carnalità delle azioni è ciò che inchioda lo spettatore sulla sedia. Così siamo: carne e sentimenti incontrollati; non abbiamo più culture e o limiti o pudori a contenerci e andiamo a sbattere contro i muri delle nostre vite impossibili come palline da flipper, per vedere chi si rompe prima. Noi o il flipper. Sbaglierò, ma non è un caso che gli autori abbiano scelto di ambientare questa vicenda la notte di Natale: come fosse un anti-cinepanettore. O, almeno, un Natale di verità.
Proprio nel gioco tra realismo (il panettone, il vino, i corpi, il sudore) e l’allusione (le luci, la gestualità controllata che a volte vuol parere quasi inconsulta) sta il segno distintivo di questo spettacolo che si fa fatica a definire in modo univoco: la scrittura (Francesca Macrì e Andrea Trapani) è secca, molto teatrale, senza fronzoli, senza alcuna letterarietà, ma la regìa (ancora Francesca Macrì) procede al contrario per allusioni lasciando spazio a echi di nuova danza. Perciò l’emotività dello spettatore è come circondata e poi presa alla gola: non c’è salvezza, in questa vicenda. Fuori nevica – ci viene detto – e l’unico auspicio è che la neve copra tutto. Alla fine, nella frenesia degli applausi, si cerca vanamente un qualche effetto catartico o almeno una consolazione momentanea: …sono solo quei due, lì, ad essere così moralmente orribili. E invece no, nessuna catarsi: il magone per questa metafora che ci rappresenta dove siamo andati a finire ci accompagna fuori dal teatro e, probabilmente, ci resterà addosso a lungo.